L'ANALISI
17 Agosto 2022 - 16:15
Fausto Cacciatori
CREMONA - «Raccontare la liuteria italiana del Novecento vuol dire narrare la rinascita del saper fare liutario, oggi considerato patrimonio immateriale dell’umanità dall’Unesco», è quanto asserisce Fausto Cacciatori, conservatore del Museo del Violino, alle prese con l’organizzazione della mostra Liutai italiani del Novecento, che aprirà i battenti il prossimo 21 settembre, offrendo uno spaccato dell’antica arte di Stradivari e della sua rinascita nel XX secolo.
In tutto ciò il secolo breve che ruolo ha avuto?
«Un ruolo di assoluto protagonista che vede riscoprire e rinascere l’arte della liuteria. Per raccontare questo esporremo strumenti che partono dai primi del Novecento per arrivare alle ultime donazioni, dal violino di Renato Scrollavezza del 1958 alla viola di Francesco Bissolotti del 1988, ma anche il violino di Andrea Mosconi recentemente donato al museo, ma realizzato negli anni Cinquanta. In tutto saranno in mostra 54 strumenti. Sarà possibile vedere gli strumenti della collezione del Museo del Violino che oggi non sono esposti per mancanza di spazio. Per questo, momentaneamente le sale dedicate ai vincitori delle Triennali saranno occupate dalla mostra e dagli strumenti del XX secolo. Il ruolo di un museo è anche quello di valorizzare il proprio patrimonio e renderlo disponibile ad appassionati e studiosi, periodicamente».
Quali sono queste collezioni?
«La strategia, fin dall’inizio del XX secolo, per dare visibilità ai liutai italiani fu quella di promuovere concorsi di liuteria con la possibilità di acquisto degli strumenti vincitori da parte degli enti organizzatori, strumenti poi da donare a giovani musicisti promettenti. In questo contesto ha una importanza notevole il concorso del 1937, in occasione del Bicentenario Stradivariano, concorso promosso da Enapi e dalla Federazione nazionale dell’artigianato fascista che voleva essere una risposta alla crisi e scarsa visibilità della liuteria italiana. La collezione di liuteria contemporanea del nostro museo nasce proprio con la donazione dei 24 strumenti vincitori del concorso del ‘37. Oggi se ne conservano 23, perché la viola di Ornati non è più nella collezione a partire dal 1957. C’è poi una seconda donazione che completa la collezione del museo, con altri 17 strumenti che si trovavano al conservatorio Cherubini di Firenze, di proprietà della Federazione fascista dell’artigianato che li dona alla città di Cremona nel 1937 perché la città viene individuata come il luogo da cui far ripartire la liuteria italiana. Questa rinascita si doveva compiere con l’istituzione della scuola da un lato e l’istituzione del museo dall’altra. Formazione e conservazione erano le parole chiave per il rilancio della liuteria».
A questi due nuclei principali si affiancano altre donazioni?
«Il patrimonio di strumenti ad arco del museo torna ad arricchirsi negli anni Sessanta del secolo scorso, ma con donazioni per lo più private e motivate dalla volontà di familiari di ricordare il liutaio loro congiunto come nel caso della moglie di Romedio Muncher e quella di Luigi Digiuni. L’unica eccezione è quella che riguarda il violino di Simone Fernando Sacconi, acquistato dal Comune con un contributo della Regione nel 1994».
Qual è il motore primo della rinascita nella seconda metà del Novecento della liuteria cremonese?
«È, senza ombra di dubbio, l’acquisto dello Stradivari 1715 detto Il Cremonese, intuizione di Alfredo Puerari che decide di ridare smalto e visibilità alla tradizione liutaria, portando in città uno degli strumenti del suo massimo liutaio, Antonio Stradivari. Questa decisione ha innescato un meccanismo virtuoso che ha visto la comunità cremonese, le sue istituzioni credere nella forza identitaria della liuteria».
Ma dalla gloria dei grandi maestri ad arrivare al rilancio novecentesco c’è un bel salto temporale.
«Dopo la morte di Enrico Ceruti la tradizione liutaria cremonese è al lumicino, ci sono bravi ebanisti che fanno i liutai per passione e questo nella seconda metà del XIX secolo quando si assiste a un’impennata di richiesta di strumenti musicali. Emergono le scuole francesi e tedesche, ma anche la costruzione seriale di strumenti. In tutto questo la liuteria italiana segna il passo e quella cremonese si perde. Il liutaio italiano rimane legato a una visione romantica dell’artigiano che lavora in solitudine».
E qual è il fatto che innesca la rinascita della liuteria italiana e cremonese?
«Credo che tutto abbia inizio dalla scuola, dalla sua istituzione nel 1938 e dal suo sviluppo, anche se poi, prima di vederne i frutti, devono trascorrere trentacinque o quarant’anni, ovvero dobbiamo arrivare agli anni Sessanta e Settanta. Uno sviluppo misurabile e quantificabile».
In che modo?
«C’è un dato interessante. Renzo Bacchetta nel ‘37 fa un censimento di 145 liutai italiani. La Lombardia ha in tutto una trentina di liutai, l’Emilia 27 e poi via via le altre regioni con numeri più piccoli. A distanza di settant’anni, quando nel 2014 abbiamo realizzato la mostra dei liutai italiani, abbiamo esposto 165 strumenti, di questi 88 erano cremonesi. Siamo passati da una realtà policentrica negli anni Trenta e Quaranta a una realtà che di fatto Cremona la capitale della liuteria italiana. Nella seconda metà del Novecento cambia la geografia della liuteria italiana».
A tal punto che oggi parlare di liuteria è anche parlare di Cremona...
«Questo fatto si lega a un impegno che ha visto le istituzioni cremonesi agire insieme a favore della grande tradizione liutaria, e questo al di là delle polemiche, delle battute d’arresto. La mostra sui liutai del Novecento vuole raccontare questa parabola, nella consapevolezza che le collezioni storiche del museo sono strettamente collegate e in dialogo con gli strumenti del concorso Triennale, uno spaccato della realtà liutaria internazionale, un orizzonte che si riflette sulla grande tradizione della liuteria classica. I grandi maestri cremonesi costruivano violini per le teste coronate d’Europa, la loro visione era internazionale. Noi dobbiamo tenere alta questa tradizione, nella consapevolezza del nostro passato remoto e recente».
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