L'ANALISI
24 Novembre 2025 - 21:33
CREMONA - Uniti dall’amore e da un rene. Quello che lui, nel 2016 ha donato a sua moglie, salvandole la vita. Un dono — il trapianto è avvenuto presso ospedale universitario di Padova - originato da una catena di errori commessi all’ospedale Maggiore di Cremona, dai medici che per tre anni, dal 2013 al 2015, hanno avuto in cura la paziente, all’epoca neanche quarantenne e già senza un rene dal 2008.
Per la responsabilità medica, nella causa civile promossa dalla donna, la Corte d’appello di Brescia ha confermato la sentenza del Tribunale di Cremona di condanna dell’Asst a risarcire con 290.879 euro la paziente, vittima di un’odissea lunga sei anni, la metà dei quali scandita da 15 ricoveri, tra maggio 2012 e dicembre 2015, e 8 interventi per la sostituzione dello stent ureterale e per il trattamento di complicanze infettive delle vie urinarie. L’altra metà passata nelle aule di giustizia. L’ospedale è stato inoltre condannato a rimborsare alla paziente 7.830 euro per le consulenze affidate agli specialisti, più 23mila euro di spese legali sostenute.
È un faldone alto due spanne, zeppo di carteggio clinico e di consulenze tecniche, quello sulla scrivania dell’avvocato Riccardo Bosio, il legale che ha assistito marito e moglie nel calvario.
Tutto ha inizio il 3 febbraio del 2012, quando la paziente - già senza il rene destro - viene ricoverata per una calcolosi al rene sinistro. I medici hanno due opzioni: il trattamento Eswl ovvero la frantumazione del calcolo con le onde d’urto, un intervento mini invasivo, o l’ureteroscopia. I medici optano per quest’ultimo trattamento, ma durante l’operazione sorge la complicanza: perforazione dell’uretere. Vi si pone rimedio, mettendo lo stent. Tra gennaio del 2013 e gennaio del 2015, la paziente finirà in sala operatoria altre 8 volte per sostituire lo stent. Affetta da insufficienza renale irreversibile, la giovane donna infine si rivolgerà al reparto di Urologia dell’ospedale di Padova. La sola via di salvezza è che il marito le doni il rene, anche se non è compatibile, «con tutte le problematiche connesse, concernenti il maggior rischio di rigetto ed infezione e la necessità di assumere farmaci antirigetto».
Prima dell’intervento, la moglie si sottopone alla dialisi per alcuni mesi. Nell’estate del 2016 il ricovero per il trapianto e le dimissioni il 18 luglio. La paziente è salva, ma è limitata «nella gestione della vita quotidiana e delle esigenze familiari, nella pratica sportiva, nell’utilizzo prolungato dell’auto» sia che la guidi sia come passeggera, «nelle attività all’aria aperta prima praticate come le gite in montagna e le vacanze al mare e ai bagni in piscina per il rischio di contrarre infezioni alle vie urinarie».
Dopo l’iter sanitario, l’iter in Tribunale. L’avvocato Bosio non parte subito in quarta con una causa civile contro l’Asst. Il suo metodo è di procedere per gradi. Chiede al giudice un accertamento tecnico preventivo. Il giudice nomina gli esperti: Giulio Garzon e Andrea Fandella. Le operazioni peritali cominciano il 7 marzo del 2022. Vi partecipano i consulenti di parte: Franco Gianzini e Agostino Meneghini messi in campo dall’avvocato Bosio; il professor Umberto Genovese e Aldo Franzini nominati dall’avvocato di Asst, Paolo Villa.
I periti del giudice concludono per una «responsabilità inequivocabile» dell’ospedale di Cremona «con nesso causale diretto». In particolare, nel rispondere ai quesiti del giudice, gli specialisti ritengono «censurabile» la condotta dei medici di Cremona «sia in relazione alla tecnica chirurgica adottata sia in relazione alla gestione della complicanza».
Ma c’è dell’altro. Annotano: «È stato peraltro omesso l’esame istologico della porzione di uretere avulsa che avrebbe consentito di conoscere esattamente lo spessore e la lunghezza della porzione di uretere danneggiato ed avrebbe potuto servire a decidere la migliore opzione terapeutica. Per esempio, se documentata una lesione a tutto spessore si poteva decidere a ragion veduta per una chirurgia riparativa nell’immediato senza aspettare l’evoluzione lesiva.»
I periti osservano: «Non c’è dubbio che una condotta clinica corretta avrebbe evitato l’insorgenza dell’insufficienza renale irreversibile». Aggiungono: «Grazie alla buona volontà del marito che si mette a disposizione per donarle un rene, la paziente entra nel programma trapianti e presso l’Unità operativa Complessa di Trapianti di Rene e Pancreas dell’azienda ospedaliera di Padova».
Nell’accertamento tecnico preventivo, i periti del giudice quantificano l’entità del danno da risarcire: circa 300mila euro. Ma l’Asst non ci sta. Così, parte la causa civile. L’anno è il 2022. Nell’ordinanza con cui dà ragione alla paziente, il giudice riprende le osservazioni esposte dai periti nell’elaborato depositato all’esito dell’accertamento tecnico preventivo. «Il Collegio dei consulenti tecnici di ufficio — scrive il giudice - dopo aver precisato che il caso concreto ‘non presentava alcuna difficoltà tecnica particolare’ ed analizzata la condotta del personale sanitario della convenuta, è giunto ad affermare la censurabilità della condotta dei sanitari».
Il giudice ha condannato l’Asst a risarcire la donna con 290.879 euro, ma l’Asst ha impugnato. La Corte d’appello ha confermato la sentenza di Cremona. Oggi scadeva il termine per l’eventuale ricorso in Cassazione.
«È stata una vicenda oltremodo lunga, visto il comportamento tenuto dall’ospedale di fronte all’evidenza», ha commentato l’avvocato Bosio, che si è detto «molto soddisfatto dell’ottimo risultato ottenuto, conseguito grazie alle competenze in materia di responsabilità medica mie e del mio gruppo di lavoro (medici e legali) che costantemente mi supporta».
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