L'ANALISI
17 Maggio 2025 - 05:20
CREMONA - «Come coniugare quello che ho visto con quello che siamo qui. È l’aspetto più difficile da affrontare, da quando sono tornato dal Brasile. Regalare bellezza salva e ci salva. È con questa convinzione che sono tornato in città». Mattia Cabrini, regista e attore della Compagnia dei Piccoli, insieme alla moglie, Sara Arcaini, docente di storia e filosofia, sono reduci da un lungo periodo a Salvador de Bahia in Brasile, «siamo stati invitati da don Davide Ferretti, cremonese e da Gloria Manfredini, educatrice e docente di danza. Ci hanno invitato per fare teatro e danza, per lavorare con i ragazzi delle favelas. Accettare è stata una sfida, ma anche una chiamata a cui era impossibile non rispondere».
Dal 16 aprile al 2 maggio il mondo di Mattia e Sara è cambiato e così anche il loro sguardo sul mondo: «non siamo più gli stessi, ciò che accade là è pazzesco, ma ci sta aiutando a capire che il dolore e le necessità relazionali sono le medesime; là esplose, potenti, senza freni e limiti, qui nascoste, soffocate, ma non meno drammatiche». Mentre parla, l’immagine di un altro mondo prende forma: case costruite così, alla meno peggio, una sopra all’altra, le favelas sono una fogna a cielo aperto. Il barrio, il quartiere della parrocchia di don Ferretti, conta 35mila abitanti.
«È un luogo pazzesco, ci muovevamo solo accompagnati da don Ferretti e da Gloria — racconta —. Entrare nelle case era uno shock. Ricordo una ragazzina seduta su un divano sudicio, le dicemmo di venire al laboratorio. Quando è arrivata da noi, fuori da quell’orrore, si è trasformata: era un cigno che si credeva anatroccolo. Ragazzi e bambini a scuola non ci vanno, sono per strada. Non appena adolescenti, i ragazzi entrano nel giro della droga, cominciano col fare il palo, poi, pian piano, portano la roba da una parte all’altra del quartiere. Stando attenti a non entrare in spazi di altre bende, perché per questo si può morire. Mentre noi eravamo là una ventina di giovanissimi sono stati ammazzati. Appena finito il laboratorio in teatro, una ragazzina è stata ammazzata davanti all’ingresso della sala, per un regolamento dei conti».
In tutto questo, insegnare teatro e danza sembra un assurdo: «ma così non è — racconta Cabrini —. La scuola che Eleonora ha creato raccoglie circa 200 ragazzine, il solo fatto di farsi lo chignon, di avere una divisa, permette loro di acquistare rispetto per il proprio corpo, spesso violato e offeso. La stessa cosa per i ragazzi, per i quali il calcio è il rito che permette loro di affrontarsi, senza spararsi, di confrontarsi con delle regole che nella vita fuori dalla parrocchia e dai momenti educativi non ci sono. In questo senso, il teatro trasforma e cambia sempre chi lo fa. Abbiamo giocato con i colori e con la musica, abbiamo fatto disegni che poi i ragazzi hanno mimato. Alcuni di loro non avevano mai visto fogli grandi».
Il rispetto del corpo e la capacità di trovare una relazione che vada al di là della violenza sono le pietre dello scandalo che l’azione del teatro mette in atto: «Ero partito pensando di mettere in scena Romeo e Giulietta per gli adolescenti e la Sirenetta per i bimbi — racconta Cabrini —. Poi ho capito che anche il solo sfiorarsi con le mani per le ragazze era una conquista, il solo trovare una dinamica di fiducia nell’altro era, per i ragazzi, una conquista, perché l’altro è un tuo nemico, qualcuno da cui guardarti. Poi è successo che quando li abbiamo portati in un teatro, una sala veramente messa male, ma pur sempre un teatro, gli occhi dei ragazzi si sono riempiti di bellezza, loro si sono fatti belli come sono realmente, ma resi grigi dalla realtà che vivono. In questo la nostra azione è stata intensa e, per noi, rivelatrice. Abbiamo cercato di trasmettere ai bambini come agli adolescenti la possibilità di uno stare nel mondo senza l’uso della violenza e della sopraffazione. Per questo dico che la bellezza può aiutarci a lenire il dolore e a cambiare i volti e gli sguardi di chi soffre».
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