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LE STORIE DI GIGIO

'Corpo a corpo' con i Classici: tra passione e impegno

Donata Feroldi, 64 anni, traduttrice e scrittrice originaria di Piadena, racconta il suo mestiere e la sua attuale sfida con 'I miserabili' di Victor Hugo, riflettendo sulla lingua e la scrittura

Gilberto Bazoli

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redazione@laprovinciacr.it

14 Aprile 2025 - 05:25

'Corpo a corpo' con i Classici

Donata Feroldi

CREMONA - Gesticola, accarezza un cane, lascia cadere una moneta nel cappello dell’artista di strada. Poi alza gli occhi al cielo in cerca della parola giusta, lei che tra le parole vive.

«Quella con i Classici è una lotta. Dà piacere, gioia, ma è una lotta con uno stile, un mondo che non sono i tuoi. È come entrare in un bosco misterioso».

È questo, per Donata Feroldi, 64 anni, famosa traduttrice e scrittrice, originaria di Piadena, il suo mestiere, nell’ombra ma affascinante. Ha fatto conoscere i più grandi autori francesi, Proust e Marguerite Duras, Zola e Stendhal, La Rochelle e Morand. Il nuovo ‘corpo a corpo’, per usare un’espressione a lei cara, che ha ingaggiato è con un altro capolavoro: ‘I miserabili’ di Victor Hugo.

«Si tratta di un testo molto rimaneggiato, molto rielaborato. Eppure, per quanto monumentale e beethoveniano, unitario. Cosa fa Hugo? Costruisce un affresco. Me ne sto occupando dal 2022, spero di finire entro l’anno».

L’autrice del Dizionario analogico della lingua italiana quasi allarga le braccia quando dice: «È in atto una semplificazione della lingua che va inevitabilmente di pari passo con la semplificazione, la banalizzazione del pensiero».
Donata Feroldi è nata in una famiglia come tante. «Mio padre e mia madre non avevano alcuna istruzione salvo il fatto che papà era abbastanza amico di Mario Lodi. In casa non c’erano libri. È stata la mia maestra a incoraggiarmi ad andare sin da bambina in biblioteca. Era capace di accostarci alle poesie non dell’infanzia ma, ad esempio, di Evtushenko. E così sono diventata un’accanita lettrice. Non ho mai avuto la Barbie. Ho letto sempre tanto, tantissimo. Come dice quella canzone di Lou Reed dedicata a Andy Warhol, ‘Quando vivi in una piccola città’, in un paesino la letteratura è il mondo».
La passione per la pagina scritta si è rafforzata all’Aselli, «dove ho scoperto per conto mio ‘Le affinità elettive’ di Goethe, l’Ulisse di Joyce, tutta Virginia Woolf, Musil. Non Manzoni perché mi annoiava a morte, ma l’ho rivalutato leggendolo da adulta alla ricerca di una lingua per tradurre Notre-Dame de Paris».
Dopo il liceo scientifico, la Statale di Milano, la facoltà di Filosofia teoretica e la tesi di laurea, un’indagine semantica, sull’orrore.

«Alla traduzione ci sono arrivata un paio di mesi dopo quasi per caso. Su un giornale c’era l’annuncio che a Torino aveva aperto la bellissima scuola per traduttori fondata da Magda Olivetti, nipote di Adriano. Ho superato gli esami di ammissione: è stata un po’ una folgorazione, come quando incontri in treno qualcuno che diventa il tuo grande amore. Non avrei mai creduto che fosse quella la mia strada. La traduzione conciliava due aspetti. Uno spiccatamente filosofico: si è continuamente sollecitati a riflettere sulla natura del linguaggio. L’altro aspetto è questo: mentre prima non mi sentivo dentro una corrente di pensiero e mi sembrava di restare con un piede in tante scarpe, con quel mestiere si arriva a un esito definitivo, a produrre un oggetto, che è il libro tradotto».

Il suo primo è stato ‘Casse-pipe’ di Céline

«Era il frutto di un lavoro collettivo. Giuseppe Guglielmi, il mio maestro, mi ha insegnato l’attenzione al suono, alla musica, al ritmo della lingua perché per tradurre, come dice un’altra canzone, ci vuole orecchio».

Era attratta anche «dalla dimensione dell'avventura. Non ho mai proposto testi, me li hanno sempre proposti, e ogni volta è un viaggio nuovo. Magari devi tradurre uno scrittore già letto, ma sono due cose completamente diverse: quando leggi un’opera, in qualche modo ti fai catturare; ti cattura anche quando la traduci, ma ce l’hai di fronte. Non è come tuffarsi nell’acqua e uscire, ma come approdare su un continente nuovo e vedere i dettagli del paesaggio. Lo si attraversa nella lentezza, il rallentamento aiuta a cogliere la plasticità del testo, la sua complessità. Quando traduci, è come un’esplosione, come se si aprissero abissi tra le parole. O come un’invasione degli ultracorpi, che sono il mondo dell'autore, la sua impronta. Ti accorgi se uno scrittore è grande, come ti accorgi se non lo è: dalla povertà dei suoi mezzi, dalla mancanza di un’anima, di una profondità. Si diventa cattivi, crudeli, non si può fare a meno di vedere i difetti del testo, balzano all’occhio, non lo fai apposta».

Il suo giudizio sulla letteratura italiana di oggi è severo.
«Non farò nomi, ma non mi piace quasi niente perché la maggior parte degli autori non fa nessun lavoro sulla lingua».
La sua casa di Piadena è stipata di libri. «Sono metodica, ho le mie strategie. Sono abbastanza veloce, anche se su una pagina posso starci giorni e giorni. Il mattino mi alzo e comincio. Mi interrompo quando sono satura e capisco che non sono lucida, pronta, attenta. In genere, faccio una prima stesura che comunque è molto pensata; poi c’è la fase più lunga, della revisione. Quando consegno il mio elaborato, una frase l’avrò letta quaranta volte, forse più. Devi rendere la tua lingua, che è il tuo corpo, flessibile, malleabile all’impulso che viene dal testo, da fuori. Per arrivare, come nel teatro o nella danza, alla naturalezza del testo, al momento in cui ti muovi secondo quell’impulso opponendo la minima resistenza possibile».

Si era già confrontata, più volte, con Victor Hugo, mai però con ‘I miserabili’.

«Quando la Feltrinelli me l’ha chiesto, ho rifiutato dicendo: non l’ho inchiodato io Cristo alla croce, datemi una cosa difficile ma corta. Hanno continuato a insistere ma non ho accettato praticamente per dieci anni. Poi, non so perché, secondo me in un momento di follia, mi sono arresa. Non volevo perché è un’opera enorme, mi spaventava la mole. Prima del sì, di nascosto dall’editore, ho provato a tradurre alcune pagine, che mi hanno completamente rapito. Proprio un colpo di fulmine. Alla fine mi sono buttata. Ho dovuto mettermi a studiare le tre versioni del romanzo, che ha avuto una gestazione estremamente complessa ed è rimasto per 12 anni in un baule».

Poi Hugo l’ha ripreso stravolgendolo totalmente. «All’inizio non mi ci ritrovavo, ora invece sì. Ho già consegnato la prima stesura, ma la revisione sarà molto più profonda».

L’Intelligenza artificiale ha messo nel mirino anche una professione particolare come la sua.
«Sta già accadendo, al punto che alcune case editrici hanno aggiunto nei contratti con i traduttori una clausola con cui li diffidano dal farne uso».

Ma lei ha una preoccupazione più ampia: «Lo scadimento, l’appiattimento della lingua è sotto gli occhi di tutti, è una banalità sopraffina, una cosa lapalissiana. A noi ma anche agli stessi autori viene spesso chiesta una semplificazione del testo. È in atto una specie di liofilizzazione della lingua e della scrittura. Non di meno la realtà continua ad essere complessa. La lingua è il pensiero, non c’è nessun pensiero al di fuori della lingua, alla fine si pensa in parole. Questa complessità della lingua che viene abrasa anche in nome di una malintesa democratizzazione è qualcosa di molto pericoloso negli esiti».

E più povere sono le parole, «più povera è la maniera di organizzare il pensiero e più povero è il mondo».
Non è stato, non è sempre così.
«Si dice che gli eschimesi, gli inuit, abbiano ventuno modi per indicare la neve. Questo perché sono in grado di descriverne i vari aspetti significativi per la loro vita. Forse dovremmo imparare da loro».

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