L'ANALISI
22 Ottobre 2024 - 18:03
CREMA - La corte d’assise ha condannato a 7 anni e 3 mesi di reclusione ciascuno, Edith e Paul, fratelli nigeriani di 38 e 35 anni che per l’accusa resero un inferno dieci mesi della vita di Maria (nome di fantasia), allora 18enne, connazionale arrivata a Crema convinta di fare la baby sitter, invece buttata sulla strada a prostituirsi, sette giorni su sette, chiusa in casa a prendere botte quando osava ribellarsi, da settembre del 2015 a giugno dell’anno successivo.
Il pm aveva chiesto per Edith 13 anni di reclusione, 12 per il fratello. Entro trenta giorni la Corte d’assise depositerà la motivazione della sentenza verso la quale gli avvocati Michela Tomasoni e Alessandro Zontini non escludono il ricorso in appello. «È sicuramente una pena esemplare, leggeremo la motivazione», hanno detto i difensori, che nell’arringa, contrariamente a quanto affermato dal pm, avevano puntato sulla «inattendibilità» della vittima, i cui ricordi raccontati al processo erano «discordanti» rispetto a quelli riversati nella denuncia. Inoltre, per l’avvocato Tomasoni «un po’ sullo sfondo è rimasto il marito di Edith, colui che aveva sottoscritto il contratto di locazione. Sposato a una italiana, è irreperibile, per cui non è stato imputato in questo processo, ma probabilmente è quello che ha avuto un ruolo molto più importante dei nostri assistiti, anche loro tenuti in scacco da quest’uomo».
Maria oggi ha 27 anni, da tempo vive in una regione del Nord Italia, si mantiene lavando i piatti nella cucina di un ristorante. All’udienza del 7 ottobre scorso, aveva raccontato come arrivò in Italia e che cosa le accadde in quei dieci mesi d’inferno a Crema. Sino all’età di 18 anni, in Nigeria aveva badato ai suoi fratelli più piccoli. A Benin City suo padre conosceva una parente di Edith che «a Crema cercava una baby sitter».
Aveva parlato di un rito in Nigeria davanti alla statua di un santone: una sorta di giuramento di fedeltà alla connazionale che a Crema l’avrebbe ospitata per farle fare la baby sitter. «Sì, avevo sentito di ragazze che poi si dovevano prostituire, ma pensavo che il mio caso fosse diverso». Il viaggio in auto e in pullman per raggiungere la costa e quello sul barcone. Lo sbarco a Lampedusa. «Mi hanno dato 'un foglio': il permesso di soggiorno provvisorio per tre mesi. Poi, è finita in quella casa dove 'si sono trattenuti il foglio'. Dove 'mi facevano dormire su un materasso in soggiorno; d’inverno era ghiacciato, perché lo tenevano sul balcone e poi lo ritiravano'». Ai vestiti ci pensavano i suoi aguzzini. Il cibo “non sempre me lo davano”. E quando glielo davano, “dovevo mangiare in un angolo della cucina, mi dovevo prostituire dalle 8 alle 18, qualche volta fino alle 20, tutta la settimana, anche la domenica, anche con il ciclo. Se mi ribellavo, mi picchiavano, alternativamente, più lei che lui, la signora anche con un manico di scopa. Mi dicevano che se volevo sentire i miei in Nigeria, dovevo continuare a prostituirmi”.
Quando rincasava dalla strada, le contavano i preservativi rimasti. Così sapevano quanti soldi aveva guadagnato. Se li prendevano tutti. Lei si teneva un po’ di spiccioli, qualche “mancia”. E se si ribellava, erano botte («tante»), minacce a lei e alla sua famiglia in Nigeria. La libertà ha un prezzo: 35mila euro.
A luglio del 2016 l’incontro con un connazionale. Maria è riuscita a liberarsi. «Ero molto stanca di vivere lì». Si è messa con un nigeriano (hanno vissuto a casa di lui), poi la storia è finita, lei ha dormito una notte sulla panchina di un giardino e lì l’ha intercettata un uomo che l’ha salvata. Maria gli ha raccontato la sua tragedia, lui ha insistito perché andasse al commissariato di polizia a denunciare. Lo ha fatto. «Da lì mi hanno portato alla Caritas, il giorno dopo in un’associazione a Milano, poi con la stessa associazione a Bergamo».
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