L'ANALISI
23 Settembre 2024 - 18:46
Il tribunale e nel riquadro gli avvocati Alessandro Zontini e Michela Tomasoni
CREMA - «È completamente scarico». Prova a «rianimarlo». Impossibile: «È deceduto». E c’è anche «il rischio che esploda, perché la batteria è gonfia».
Storia di un telefonino sequestrato «nel lontano» 25 luglio del 2016 ad una ragazza nigeriana allora 19enne, convinta da Paul ed Edith, fratello e sorella suoi connazionali, a venire in Italia per lavorare come baby sitter. L’anno prima affrontò il viaggio su uno di quei barconi della speranza, ma in Italia, per l’accusa (la Procura distrettuale), la giovane fu ridotta in stato di schiavitù, minacciata a prostituirsi a forza di botte: fu picchiata anche con il manico di una scopa. E costretta a consegnare via via ai suoi sfruttatori poco più di 10mila euro.
Nel telefonino (vecchio modello) si cercavano contatti tra la vittima e i suoi presunti aguzzini, nel frattempo spariti, a processo davanti alla corte d’assise di Cremona per tratta di schiave e riduzione in schiavitù. I difensori d’ufficio, Michela Tomasoni e Alessandro Zontini, non li hanno mai visti né sentiti.
Oggi, terza udienza, il sovrintendente della polizia postale è arrivato in aula con dell’apparecchiatura per effettuare sullo smartphone, corpo del reato, l’accertamento mancato nella fase delle indagini. Lo ha «de-sigillato». «È scarico, non si attiva». Il tempo trascorso lo ha messo fuori uso. Lo smartphone è stato riposto nella scatola, la Corte d’assise ha dato mandato al sovrintendente «di provvedere allo smaltimento della batteria pericolosa».
Naufragato l’esperimento, l’udienza di oggi era stata fissata anche per sentire la presunta vittima, che, intanto, si è rifatta una vita: risiede in un’altra regione ed è diventata mamma. Doveva presentarsi a Cremona ad aprile scorso, ma stava allattando. Oggi non si è vista. «Dobbiamo necessariamente provarci di nuovo — ha detto il presidente della Corte d’assise —. Bisogna farle capire che deve venire». Da qui, il rinvio al 7 ottobre prossimo.
I capi di imputazione riempiono due pagine. E riassumono il viaggio di andata all’inferno finché un giorno una telefonata salvò la diciannovenne. Lei stessa chiamò il padre in Nigeria, approfittando di una distrazione dei suoi sfruttatori. «Scappa! Vai dalla polizia», le disse il padre. Lei riuscì a fuggire e si presentò al commissariato di Crema. La denuncia è del 25 luglio 2016, l’1 agosto successivo la integrò. Raccontò che per sentirsi libera, ai suoi sfruttatori avrebbe dovuto consegnare 35mila euro. Raccontò delle minacce di morte sia a lei sai ai suoi familiari in Nigeria, se avesse provato a scappare.
Un racconto shock che la giovane ora dovrà necessariamente rivivere davanti alla corte d’assise.
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