Cerca

Eventi

Tutti gli appuntamenti

Eventi

CREMONA. LA STORIA

«La mia tesi nel nome di mamma»

Loretta: «Mia madre biologica si suicidò, esasperata dalle botte di mio padre. Al suo dramma mi sono ispirata per l’elaborato sulla violenza contro le donne»

Francesca Morandi

Email:

fmorandi@laprovinciacr.it

15 Ottobre 2024 - 05:25

«La mia tesi nel nome di mamma»

CREMONA - «Quando avevo 8 mesi, la mia mamma si è suicidata, perché mio padre agiva su di lei una violenza fisica molto pesante. Io ero piccola, ma, inconsciamente, ho assorbito questa cosa. L’adulto non si rende conto. Io sono orfana della mia mamma biologica e vittima di violenza assistita». Nasce dal dramma personale di Loretta Maffezzoni, 29 anni, la tesi 'La violenza sulle donne è il fallimento della società umana'. Una tesi da 110 e lode conseguita al master di secondo livello in Criminologia-psicologia giuridica (Università telematica E-Campus, relatore Fabrizio Mignacca), dopo la laurea in Giurisprudenza all’Università Cattolica del Sacro Cuore. Attivista, ma anche modella, Loretta.

Obiettivo della sua tesi?
«Dare, nel mio piccolo, un contributo a un cambiamento culturale contro la violenza sulle donne».

Lei è cresciuta- serena e felice - nell’amore della famiglia che l’ha adottata piccolissima: mamma Myriam e papà Germano. Per la prima volta parla della tragedia della sua mamma biologica.
«Non ho mai parlato della mia breve, ma intensa infanzia. I miei genitori biologici sono arrivati in Italia agli inizi degli anni ‘80 attraverso un contatto che avevano tra la Nigeria e l’Italia. Prima è arrivato mio padre che ha trovato lavoro, poi mia madre con mio fratello maggiore, quindi sono nata io. La mamma ha subito violenza. Ad un certo punto, non l’ha più sopportata ed è arrivata a compiere un gesto estremo. Molte persone potrebbero vederlo come un gesto non altruista, egoista».

Lei come lo vede?
«Io la capisco e la comprendo. Erano anni diversi. Non c’erano i centri antiviolenza, la mia mamma biologica era straniera in un Paese straniero, non conosceva la lingua».

Lei era piccolissima, ma ha «assorbito».
«Non pensavo che questo accadimento potesse incidere sulla mia vita, perché sono sempre stata una bambina spensierata, allegra, felice e circondata dall’amore della mia famiglia adottiva. Ma crescendo, questo accadimento ha inciso molto nelle relazioni con l’altro sesso. La mia mente di bambina se l’è portato dentro per molti anni».

A che età ha preso consapevolezza?
«A 21 anni, ma solo nel 2021 ho deciso di andare in terapia, perché da sola non riuscivo a sbloccarmi. L’aiuto della psicologa è stato fondamentale».

Torniamo alla tesi nata, pensando alle violenze subite dalla sua mamma biologica. Studiando il fenomeno, che cosa l’ha colpita?
«Intanto, che è ‘democratico’. E che la situazione è cambiata, ma fino a un certo punto. Non basta soltanto avere delle normative. Mi sono resa conto che della violenza sulle donne — psicologica, fisica ed economica — si parla da anni. La prima ‘Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne’ dell’Onu è addirittura del 1993».

Lei aveva due anni.
«Dal 2011 c’é la Convenzione di Istanbul, pietra miliare sulla violenza domestica, nel 2013 ratificata dall’Italia. Noi firmiamo convenzioni, ma...»

Ma le violenze non si fermano, anzi.
«C’è bisogno di un cambiamento radicale, di educare al rispetto. Purtroppo, non è ancora ben entrato in testa che la donna dev’essere rispettata in quanto tale. È una questione culturale, sociale che ci riguarda tutti, donne e uomini».

Soprattutto gli uomini.
«In una società patriarcale globale, il maschio ha delle prerogative di nascita: si crede superiore alla donna e non si è ancora capito per quale motivo. Non vivendo quello che la donna vive tutti i giorni, non riesce a capire quanto sia difficile essere donne da sempre in questo mondo. E quanto sia difficile uscire da una situazione di violenza, anche perché la maggior parte delle donne che la subisce non subito capisce che si tratta di violenza. A volte, la violenza viene fuori nel lungo periodo. Ci sono tre fasi. C’è un inizio, qualche parola, magari una violenza contro un oggetto, l’uomo che butta a terra qualcosa. Poi, arriva la prima sberla all’interno di un sistema manipolatorio: la maggior parte sono manipolatori e narcisisti maligni. Non te ne rendi conto e ti colpevolizzi».

Terza fase.
«La luna di miele: lui cambia atteggiamento, è carino, ma non è altro che il preludio di qualcosa di peggiore. E quando questo ciclo ricomincia, la violenza aumenta sempre di più sino a sfociare nei femminicidi».

Educare al rispetto.
«Ovunque, nella famiglia, nella scuola, sui luoghi di lavoro. E non bisogna fare come gli struzzi».

Lei voleva fare il magistrato. Adesso?
«Intanto c’è chi mi ha suggerito che la mia tesi potrebbe trasformarsi in un libro o in uno strumento affinché si abbia una consapevolezza maggiore della complessità del fenomeno. Perché non basta dire: ‘Vai a denunciare’».

Il suo obiettivo nella vita?
«Aiutare chi soffre. E ciò mi rende felice».

Commenta scrivi/Scopri i commenti

Condividi le tue opinioni su La Provincia

Caratteri rimanenti: 400