L'ANALISI
22 Settembre 2024 - 05:30
«Il branco vigliacco» è il tanto inquietante quanto efficace titolo che ha caratterizzato la nostra prima pagina di ieri. Ci sono poche azioni più ignobili del minacciare e taglieggiare una persona disabile di mezza età, estorcendogli in più occasioni somme «anche ragguardevoli», come ha specificato il comandante della Polizia locale di Cremona, Luca Iubini, che ha messo fine a questo sconcio arrestando in flagranza uno dei ‘vampiri’ e denunciando due compici.
A rendere la vicenda ancora più sconcertante e sconvolgente c’è la giovanissima età dei taglieggiatori che hanno assediato per mesi la loro vittima, confidando sul fatto che la sua fragilità non lo avrebbe portato a denunciarli. Sfortunatamente per loro, la persona disabile a un certo punto si è ribellata al ricatto subito quasi quotidianamente rivolgendosi al comando di polizia locale, che ha avviato immediatamente un’indagine arrivando ad accertare gravi episodi di sopraffazione e individuare i responsabili inchiodandoli alle loro responsabilità.
L’arresto è stato convalidato dal tribunale dei minori di Brescia e per il ragazzino è stato disposto l’obbligo di permanenza in casa. Al pari dei suoi complici è stato denunciato per estorsione aggravata. La loro posizione potrebbe però farsi più pesante nel caso in cui l’indagine, tutt’altro che chiusa, arrivi a dimostrare che la vittima ha subito anche violenze fisiche. Per rispetto della privacy della vittima e della minore età dei suoi persecutori non è corretto divulgare altri particolari.
Tutto questo è accaduto in un quartiere della civilissima Cremona. E allora la prima domanda che ci si pone è: possibile che nel quartiere nessuno si sia accorto di nulla?
Cremona è una piccola città, per molti aspetti ancora a misura d’uomo. Eppure la vittima è stata un invisibile. In questo caso è mancata totalmente quella rete territoriale di protezione sociale che dovrebbe essere garantita dal vivere in una comunità ristretta - il quartiere, appunto - dove più o meno tutti ci si conosce, in cui le relazioni sono più facili in quanto immediate. Un clima umano dove i concetti di comunità e solidarietà dovrebbero ancora essere non solo presenti ma caratterizzanti. In questo caso, per quanto ne abbiamo saputo, non è accaduto nulla di tutto questo. E allora l’istituzione locale, così come ognuno di noi cittadini, dovremmo interrogarci su dove stiamo davvero andando come comunità. Se le buone pratiche territoriali con le quali ci riempiamo la bocca in ogni occasione sono soltanto il modo per metterci in pace con la nostra coscienza oppure se possono diventare per davvero uno stile di vita che non ci porti a voltarci dall’altra parte disinteressandoci dell’altro. Chiederci se possediamo, singolarmente come persone e collettivamente come istituzioni, il sentire del senso di comunità oppure se lo abbiamo smarrito. Un approccio che non nasce solo dal condividere piazze, strade, scuole e parrocchie, ma dalla consapevolezza del concetto di comunità come casa comune dove in qualche modo siamo tutti connessi. In parole povere una welfare community. Questa vuole solo essere una riflessione-provocazione sul significato dell’essere cittadini. In parole povere, la comunità - spiegano i manuali di sociologia - è fondata da ciascuno di noi in relazione all’altro, ciascuno per vivere deve riconoscere un pezzo che gli manca e che può trovare nell’altro.
La domanda è: vogliamo davvero farne parte o privilegiamo l’individualismo più o meno esasperato? Ognuno di noi dia la sua risposta, nella consapevolezza, però, che prima o poi potremmo essere noi negli sgradevoli panni di chi ha la necessità di essere sostenuto senza trovare ascolto. Un dilemma ben delineato dal grande sociologo polacco Zygmunt Bauman, nel suo saggio ‘Voglia di comunità’, pubblicato in Italia da Laterza, la cui tesi, come si legge nel risvolto di copertina è chiara. La comunità ci manca perché ci manca la sicurezza, elemento fondamentale per una vita felice, ma che il mondo di oggi è sempre meno in grado di offrirci e sempre più riluttante a promettere.
Ma la comunità resta pervicacemente assente, ci sfugge costantemente di mano o continua a disintegrarsi, perché la direzione in cui questo mondo ci sospinge nel tentativo di realizzare il nostro sogno di una vita sicura non ci avvicina affatto a tale meta; anziché mitigarsi, la nostra insicurezza aumenta di giorno in giorno, e così continuiamo a sognare, a tentare e a fallire. Ma se riuscissimo a realizzare una collettività amica, la comunità richiederebbe una lealtà incondizionata e noi perderemmo libertà e autonomia.
E allora, come scrive Bauman, «Ciascuno di noi consuma la propria ansia da solo, vivendola come un problema individuale, il risultato di fallimenti personali e una sfida alle doti e capacità individuali». Così cerchiamo soluzioni personali a contraddizioni sistemiche, la salvezza al singolare da problemi che si possono forse risolvere solo collettivamente, ripiegandoci sulle nostre risorse e alimentando ancora di più l’insicurezza nel mondo degli altri da noi, gli estranei.
Se mai può esistere ancora una comunità nel mondo degli individui, conclude Bauman, può essere soltanto una comunità responsabile, volta a garantire il pari diritto di essere considerati esseri umani e la pari capacità di agire in base a tale diritto». Un compito difficile, ma ineludibile, se vogliamo davvero che la nostra voglia di comunità serva a costruire qualcosa e non solo a farci solo rimpiangere il paradiso perduto.
Il caso dei baby taglieggiatori citato all’inizio apre anche un secondo fronte di riflessione, quello relativo a minorenni evidentemente figli di situazioni di grave disagio e degrado individuale e forse anche famigliare. Ma questa, senza ulteriori informazioni, sarebbe solo una speculazione ‘artificiale’, un puro e gratuito esercizio di stile per tentare di capire dove e come sono cresciuti per arrivare a tenere i comportamenti descritti.
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