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IL PUNTO

La povertà educativa e la povertà dei salari

In Italia, sempre più giovani abbandonano prematuramente la scuola e gli stipendi degli insegnanti sono tra i più bassi d'Europa. Bisogna elevare il grado di formazione dei nostri ragazzi se vogliamo una società al passo con i tempi

Paolo Gualandris

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pgualandris@laprovinciacr.it

15 Settembre 2024 - 05:00

La povertà educativa e la povertà dei salari

Una scena de L’attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e interpretato da Robin Williams

«La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie e altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso». L’articolo 34 della Costituzione della Repubblica Italiana fissa i paletti minimi del diritto allo studio, principio peraltro sancito anche nel diritto internazionale dalla Dichiarazione universale dei diritti umani dell’Onu. Ma viene da chiedersi se delinearlo in questi termini sia sufficiente in una società complessa e in perenne evoluzione, anche tecnologica, come la nostra. La risposta è un inequivocabile no: è necessario elevare il grado di formazione dei nostri ragazzi se vogliamo una società al passo con i tempi.

Una riflessione resa tanto più urgente dall’analisi della situazione. Il nuovo anno è iniziato da pochi giorni, ma per molti ragazzi i banchi di scuola sono un lontano ricordo: secondo l’ultima elaborazione compiuta dall’Ufficio studi della Cgia su dati Eurostat e Istat, infatti, in 431mila hanno deciso da tempo di non andarci più. Giovani tra i 18 e i 24 anni che nel 2023 hanno dichiarato di aver abbandonato prematuramente la scuola; al più hanno conseguito la licenza di terza media, ma successivamente non hanno concluso nemmeno un corso di formazione professionale della durata superiore a due anni e in questo momento non frequentano alcun corso scolastico o formativo. Cittadini che a malapena hanno assolto l’obbligo scolastico.

Quello della povertà educativa è un tema che dovrebbe essere centrale a tutti i i livelli. Secondo i dati, è molto sentito nel Mezzogiorno d’Italia, ma con una presenza altrettanto preoccupante anche in alcune aree geografiche del Nord. Tra i 20 Paesi dell’Eurozona, l’Italia e Cipro sono al terzo posto per l’abbandono della scuola dei giovani tra i 18 e i 24 anni con un tasso del 10,5% sulla popolazione. Solo Spagna (13,7%) e Germania (12,8%) presentano un risultato peggiore.

Va da sé, come sottolinea la Cgia, che questi ragazzi faranno molta fatica a trovare un’occupazione di qualità e adeguatamente retribuita: «Le sfide lanciate dai cambiamenti epocali in atto, come la transizione ecologica e quella digitale, non potranno che relegarli ai margini del mercato del lavoro, mettendo in difficoltà anche le imprese, che faticheranno ancor più di quanto non stiano facendo adesso a reperire figure altamente specializzate che raggiungono queste competenze dopo aver conseguito un diploma presso un istituto professionale, un Its o una laurea presso un politecnico».

Talvolta, la fuga dai banchi di scuola negli anni delle superiori può essere causata da una insoddisfazione per l’offerta formativa disponibile. Che non è fatta solo di corsi, ma anche — potremmo addirittura affermare soprattutto — dalla qualità del lavori di chi sta in cattedra. Una ‘voglia di insegnare’ il cui elevamento all’ennesima potenza dovrebbe essere l’obiettivo di ogni governo. Senza una classe insegnante all’altezza del compito, e ben determinata a svolgerlo, sarebbe una missione impossibile. Fortunatamente, la stragrande maggioranza di maestri e professori italiani si considera ‘in missione per conto del futuro’ e pertanto si dedica al proprio lavoro con passione, preparazione e voglia di fare. È così nonostante la figura dell’insegnante abbia progressivamente perso punti nella classifica del prestigio sociale e i fondi dedicati all’istruzione siano sempre più scarsi.

Fino a trent’anni fa, l’insegnante era figura di riferimento non solo per i suoi allievi, ma per l’intera comunità: rivestiva la stessa importanza di quella di un medico o di un avvocato o di ogni altro professionista. Oggi è stato ridotto a essere una delle figure professionali più precarie in Italia: molti anni nel limbo prima di diventare di ruolo, in attesa di concorsi che sembrano non arrivare mai. Vengono sballottati da una città all’altra (ci sono insegnanti che si ritrovano ad aver esercitato in dieci scuole diverse nel giro di cinque anni). E allora, pur con la migliore dose di buona volontà, che legame possono instaurare con gli studenti? Come possono riuscire a seguirli a sufficienza per esserci efficacemente al momento dell’inevitabile arrivo della crisi della voglia di studiare? Come possono riuscire a contrastare il sempre più assillante fenomeno dell’invadenza di genitori violenti che non accettano voti e giudizi negativi per i ‘piccoli geni’ di casa?

E ancora: ci sono decine di migliaia di precari che dovranno rifare concorsi già superati in passato a causa delle regole imposte dai vincoli della Commissione europea nell’ambito del Pnrr. Lo studio decennale Getsemani ‘Burnout e patologia psichiatrica negli insegnanti’ mostra che la categoria degli insegnanti è quella che più conduce verso patologie psichiatriche e inabilità al lavoro. I docenti sono infatti sottoposti a diversi stress di tipo professionale. La figura del docente «va ricostruita perché è in crisi. È un percorso di tipo culturale, ma è anche una sfida sociale. Oggi nella società, al di là di tante chiacchiere, la figura del docente non viene messa al primo posto», riconosce il ministro della dell’Istruzione e del merito, Giuseppe Valditara.

Contestualmente, ha annunciato che entro la fine del 2024 gli stipendi dei docenti subiranno un incremento complessivo di quasi 300 euro mensili. Il sindacato Anief, Associazione nazionale insegnanti e formatori, sottolinea però come questi aumenti, seppur positivi, non siano sufficienti a compensare l’alto costo della vita e la perdita di potere d’acquisto accumulata nel corso degli anni. Gli stipendi dei docenti italiani sono infatti tra i più bassi di tutta Europa. Secondo l’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, lo stipendio medio annuo lordo di un insegnante della scuola primaria in Italia è di 36.800 euro, in Francia di 39.417, in Olanda di 60.019 e in Germania di 74.937. E la media Ue è di 42.599 euro.

Non va meglio nella scuola media: in Italia, lo stipendio annuo lordo è mediamente di 39.463 euro, in Francia di 44.365, in Spagna di 44.962 euro, in Olanda di 72.869 e in Germania di 82.569, mentre la media Ue è di 45.015 euro. Un confronto impietoso. Con salari così, come dare torto all’insegnante-scrittore Enrico Galiano che su Libraio.it scrive: «No, insegnare non è una missione, parola pericolosa. Sapete perché? Perché evoca tutto un mondo diverso da quello che è – o almeno dovrebbe essere – l’insegnamento: la dici e subito ti saltano in mente immagini di preti nelle favelas, suore nelle zone di guerra, Robert De Niro che porta carichi più pesanti di lui nel fango mentre in sottofondo corre il Gabriel’s oboe di Ennio Morricone. Insomma: un lavoro che fai per gratuita, completa, dedizione. Come un immolarsi, un sacrificarsi».

Galiano si chiede poi: «Direste mai che fare il chirurgo è una missione? Che lo è fare l’avvocato? L’ingegnere? Eppure, anche l’insegnante ha bisogno di un percorso di studi altamente professionalizzante. Anche lui – o lei – deve accumulare anni di tirocini, formazione, corsi, ricorsi, esami. Missione – prosegue – è una definizione che sposta questo lavoro così complesso dalla parte dei lavori che sono pagati ma potrebbero essere anche gratis. Di quelle cose che fai quasi per un anelito di volontarismo. O di quelli che un po’ ti pagano e un po’ no, quasi come un riconoscimento simbolico. Che è abbastanza vero, eh — conclude sarcasticamente —: se andiamo a vedere la media degli stipendi degli insegnanti italiani rispetto a quelli degli altri paesi europei, rischiamo davvero il coccolone».



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