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LE STORIE DI GIGIO

Sulle tracce di Ulderico cremonese d’Argentina

Guillermo nei luoghi del bisnonno, fotografo emigrato a Mar del Plata a metà Ottocento

Gilberto Bazoli

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redazione@laprovinciacr.it

17 Giugno 2024 - 05:15

Sulle tracce di Ulderico cremonese d’Argentina

Liliana Martin, Guillermo Carnaghi, Carlos Roberts e Maurizio Furgada

CREMONA - Non sembra affaticato anche se è appena sceso dal Torrazzo. «Sono salito sino all’ultimo scalino e, approfittando di questa giornata limpida, ho scattato alcune fotografie. Mi chiedo se lo abbia fatto anche lui». Guillermo Carnaghi, 71 anni, è un ardente custode della memoria arrivato dalla Patagonia. Obiettivo del suo lungo viaggio ripercorrere le tracce del bisnonno, Ulderico, cremonese, partito a metà 1800 per l’Argentina, non, come tanti emigranti in quel periodo, per sfuggire dalla fame e in cerca di fortuna. Ma per amore: seguire la donna di cui era invaghito e che avrebbe poi sposato. Oltre alle pulsioni del cuore, era animato da un fuoco e da una capacità visionaria che ne avrebbero fatto il pilastro della sua nuova comunità.

Ulderico Carnaghi

Quella di Ulderico, nato nel 1852 e morto nel 1921, è stata una vita difficile ma anche avventurosa e dalle mille svolte. Oggi Mar del Plata è una città conosciuta che sfiora il milione di abitanti, il più frequentato centro balneare argentino. Ma quando, nel luglio del 1887, vi sbarcò quell’italiano di 30 anni era un piccolo paese fondato poco tempo prima. «Non c’era praticamente nulla», ricorda il pronipote. Ulderico si rimboccò subito le maniche. «Agli albori della fotografia ne intuì le potenzialità e divenne un apprezzato reporter».

Il suo primo negozio era ricavato nel retrobottega di una farmacia. Ma un anno dopo il suo arrivo aprì uno studio vero e proprio lungo la rambla Pellegrini, la via principale, in riva all’oceano, di Mar del Plata. Un autentico pioniere degli scatti. Non soddisfatto, fu anche pittore e si inventò uomo di teatro. «Divenne il direttore artistico della compagnia che si esibiva in una delle prime sale di spettacoli installata in una grande costruzione di legno dalla forma di un chiosco». Un’orchestra accendeva il ‘Pabillion’, questo il nome di quello spazioso edificio che, nei suoi diversi locali, ospitava non solo la rappresentazione di drammi classici, ma anche tavoli da gioco (carte e tombola) e serate di beneficenza, spesso a favore dell'ospedale. Don Ulderico, come tutti lo chiamavano affettuosamente, era anche un prestigiatore, un mago. «I suoi numeri, i suoi trucchi erano celebrati rumorosamente dal pubblico», riporta un giornale dell’epoca.

Se, da un lato, l’immigrato cremonese si impose come un imprenditore di se stesso ricco di fantasia, dall’altro coronò il sogno che gli aveva fatto lasciare la sua città d’origine unendosi in matrimonio con Josefina Amancia Francesconi, genovese, figlia dell’ingegner Alfredo. Un affermato professionista che, nel 1887, presentò il progetto per costruire il porto di Mar del Plata. La coppia ha avuto cinque femmine (Gemma Italia, Irene Paula, Clotilde Ulrica, Josefina Camila, Clelia Corina) e due maschi (Ulderico José Luis e Ubaldo).

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I discendenti di Ulderico Carnaghi

Alla scomparsa del marito, la vedova continuò con successo, insieme con i figli, la sua attività di fotografo. «Anche la mia è una famiglia numerosa. Ho quattro fratelli, io sono il secondogenito», riprende Guillermo, che appartiene alla quarta generazione dei Carnaghi. Aveva 25 anni soltanto quando, il 7 agosto 1977, i genitori, Ulderico Antonio (nipote di don Ulderico) e Begonia Felder, persero la vita nello schianto dell'aereo su cui si erano imbarcati contro il Cerro Paleta. I resti furono ritrovati quattro giorni dopo a causa dell’inaccessibilità del luogo. Il padre era una figura di rilievo: alto ufficiale dell'Aeronautica militare e governatore della provincia di Santa Cruz. Un politico (anche se non di professione), quindi, come lo è il figlio, prima deputato del Parlamento locale, poi di quello nazionale.

Occhiali scuri, pizzo e inseparabile cappellino di paglia, spiritoso e sempre sorridente, Guillermo vive a San Martin de Lod Andes, nel Nord della Patagonia, sulle sponde del lago Lacar, vicino al confine con il Cile e lontanissimo da Buenos Aires. Una rinomata località sciistica considerata ‘la Svizzera argentina’. Lo accompagna, Liliana Martin, un’affabile signora bionda che dimostra meno della sua età. «È la mia prima volta in Italia - dice lui -. Ho visitato Roma, Pompei, la Costiera Amalfitana, Firenze e ci recheremo a Venezia. Ma non potevo non approfittarne per fare tappa a Cremona, dove nacque e da dove partì il mio bisnonno. Sono venuto per conoscere il luogo originario dei Carnaghi. Ho scoperto così una città incantevole con la sua storia, la sua arte e le sue atmosfere rilassate. Mi ha commosso passeggiare per questi vicoli, camminare sulle stesse pietre sulle quali ha camminato Ulderico».

Il caso (o era scritto nel destino?) ha voluto che Guillermo e Liliana si imbattessero in piazza del Comune in due volti sui quali è impressa la bellezza ammaliatrice della loro regione di provenienza ai confini del mondo: Carlos Roberts, l'apprezzato liutaio giunto a Cremona dalla Patagonia nel 1987, e Maurizio Furgada, lo scrittore-viaggiatore che, facendo il tragitto contrario, armato di uno zaino e di un taccuino, quell'immensa distesa fatta di silenzi e vento l'ha percorsa a piedi sulle orme di Bruce Chatwin durante quattro esplorazioni, della durata di tre mesi ognuna e per una permanenza totale di un anno. L’ospite venuto da lontano ha parlato a Roberts e Furgada, diventati subito suoi buoni amici, dei Carnaghi, quelli di ieri e quelli di oggi, dei suoi antenati e dei suoi eredi. E loro hanno ascoltato con attenzione le sue parole, i suoi ricordi. «Il mio bisnonno cremonese è il capostipite di una dinastia molto unita, di cui sono orgoglioso di far parte. Quando ci ritroviamo a Natale siamo tanti, tantissimi. Spesso al centro dei nostri discorsi c’è Cremona. Al mio ritorno, dopo essere passato dalla Spagna, racconterò con emozione dei brividi provati su questi sassi e là, in cima al Torrazzo».

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