L'ANALISI
27 Maggio 2024 - 05:25
Gabriella Binda con il marito, il figlio e il nipote
CREMONA - Mentre distruzione e morte si abbattevano su alcuni quartieri, all’altro capo della città sbocciavano speranza e felicità. «Sono nata in quel giorno, in quelle ore, in quei minuti». Il giorno, le ore, i minuti del più duro bombardamento subito da Cremona durante la Seconda guerra mondiale. 80 gli anni trascorsi da quel 10 luglio 1944; 80 gli anni ormai vicini di Gabriella Binda, occhi azzurri e carnagione chiara.
Era un lunedì: le sirene dell’allarme suonarono alle 10.44. Troppo tardi per mettersi in salvo nei rifugi. Gli aerei americani B17, le Fortezze volanti, sganciarono, in sei ondate successive, almeno una cinquantina di ordigni di medio e grosso calibro. Obiettivo la stazione ferroviaria con la zona industriale intorno. Furono invece pesantemente colpiti porta Milano, via Palestro, l’arena estiva Auricchio, il cimitero, il mulino Rapuzzi al bivio della strada per Piadena-Olmeneta, i campi di mais oltre la Cremonella, via Sauro, la Cavalli e Poli, via San Francesco. 132 le vittime (119 i civili): la più giovane fu Lino Camozzi, 6 mesi, trovato con il dito in bocca, deceduto con accanto la sorellina Ivana, 4 anni. Fioretta Doria ed Enzo Pradella ne avevano cinque, Gianfranco Rossi 10. Poco meno di un centinaio i feriti. Altri 23 bombardamenti si sarebbero succeduti in quegli ultimi scampoli di conflitto. Ma nessun altro con un tributo di sangue così pesante.
Gabriella Binda, una bella signora che dimostra meno della sua età, è venuta alla luce sotto quel cielo. La sua famiglia ha abitato per 35 anni nella cascina di Santa Maria del Campo, lungo via Giuseppina, poco oltre l’ospedale. Uno storico complesso, con chiesa e laghetto, che in origine era un convento benedettino e che da qualche tempo è stato ristrutturato ritornando al suo antico splendore.
«Mio papà, Alberto Guarneri, faceva il contadino: era alto e magro come un chiodo, un uomo instancabile sempre in giro, giorno e notte, a darsi da fare; mia mamma, Elsa Tessaroli, detta Elvira, era casalinga e d’estate andava a lavorare nei campi. Una donna robusta morta a 96 anni, con una memoria di ferro (ricordava i compleanni di nipoti e pronipoti) e molto religiosa». Non aveva studiato, ma recitava il rosario in latino ed era devota di Sant’Antonio da Padova.
«In seguito i miei si sono trasferiti a Malagnino. Avevo due fratelli, che non ci sono più, e ho una sorella, Licia, maggiore di 12 anni. Alla morte di mio padre, mia madre è venuta a stare da noi, a Bagnara». Santa Maria in Campo era, ed è, grande, grandissima. «Ospitava 40 famiglie in un centinaio di stanze. C’erano, oltre alle stalle, il caseificio e i cavalli».
È in quella comunità, una città nella città, che Gabriella è nata. «Come spesso capitava allora, sono stata partorita tra le mura domestiche. Un’amica ha detto a mia mamma: è pieno di apparecchi, dammi la piccolina, ci penso io a portarla nei rifugi. Ma lei le ha risposto: no, se arriva una bomba, almeno moriamo insieme». Si sono salvate tutte e due.
«Da allora un vicino di casa mi ha ribattezzato ‘la bombardiera’». Suo padre quegli ordigni li ha visti cadere sopra la sua testa. «Era corso in città a cercare Ida, la levatrice. Quando intorno a porta Milano è scoppiato l’inferno, è fuggito dalle parti della stazione. Non ha trovato l’ostetrica perché lei si era recata in Comune per registrarmi all’anagrafe».
Passa il tempo, la neonata cresce. «Avevo tre anni e mezzo: mentre giocavo con il gatto mi sono gravemente ustionata con l’acqua bollente contenuta in una pentola. Il nostro padrone, per tutti ‘il marchese’, mi ha soccorso e portato sulla sua carrozza al vecchio ospedale. Mia mamma è andata subito in piazza Giovanni XXIII chiedendo in portineria di poter visitare sua figlia. ‘È stata ricoverata una bambina, ma si chiama Maria’, si è sentita ribattere. In quel momento ha capito: la levatrice aveva fatto apporre un nome sbagliato in municipio».
Tutto questo Gabriella lo ha appreso dalla madre. «Mi parlava spesso di quel periodo. Mi ha anche raccontato che in cascina si era accampato un folto gruppo di ufficiali e soldati tedeschi. Uno di loro era particolarmente gentile e affettuoso con me perché spiegava nel suo italiano maccheronico che, biondina com’ero, gli ricordavo la figlia lasciata in patria».
Finita la guerra, ‘la bombardiera’ ha frequentato l’asilo dalle suore di San Sigismondo e le scuole elementari alla Villetta.
Per 10 anni ha lavorato in una fabbrica di materia plastiche, per altri 25 in un’azienda grafica.
Il 23 luglio 1972 ha sposato Silvano Binda, 74 anni, vulcanico pensionato che da giovane ha fatto per qualche tempo l’operaio metalmeccanico, poi il rappresentante alimentare, la sua vera professione. «Ci siamo conosciuti all’oratorio e frequentati in giro per le balere. Mi è sempre piaciuto anche cantare, continuo a farlo in casa. Ho pure partecipato, a Milano, a un concorso per il festival di Castrocaro, ma non sono stata scelta».
Ha avuto un figlio, Emiliano, cinquantenne manutentore elettrico, che le ha dato i due adorati nipoti, Alessandro e Giulia.
Con la famiglia festeggerà il traguardo degli 80 anni. «È presto, non abbiamo ancora deciso come, ma di certo qualcosa faremo», assicura Emiliano. Quel mercoledì si parlerà dell’emozione per i primi vagiti in cascina ma anche della disperazione scesa sulla città devastata. Una coincidenza, certo. Ma anche il miracolo della vita che, quel 10 luglio, finiva e cominciava.
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