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CREMONA

Maltrattamenti in famiglia, il racconto in aula della ragazza

Nel 2020 ha denunciato i genitori. Due processi distinti: uno nei confronti della madre (sentenza il 25 giugno), l’altro del padre

Francesca Morandi

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fmorandi@laprovinciacr.it

30 Aprile 2024 - 16:49

, il racconto in aula della ragazza

CREMONA -  Può essere difficile nascere femmina in una famiglia indiana patriarcale. Difficile tentare di emanciparsi, di ribellarsi a un matrimonio combinato. Maria (nome di fantasia, ndr) lo ha fatto a suon di sberle e botte: mattarello e colpi di cintura. Nel 2020 ha denunciato i genitori per maltrattamenti.

Due processi distinti: uno nei confronti della madre (sentenza il 25 giugno), l’altro del padre dopo che per il genitore la procura aveva chiesto l’archiviazione, a cui la figlia si era opposta e il gip aveva ordinato l’imputazione alla Procura. Da allora, la ragazza vive in fuori provincia. Parte civile, oggi ha raccontato la sua verità nel processo a carico del padre, lui seduto accanto al difensore Mario Tacchinardi, lo sguardo sempre basso. «L’ultima volta che mio padre mi ha abbracciato, ero in terza media: avevo preso una borsa di studio»; «I miei genitori non volevano che io parlassi con i maschi, che avessi un’amicizia con loro. Non potevo assolutamente uscire, stare con gli amici. Alle elementari, avrò avuto 7-8 anni, c’era un bambino che veniva a scuola con me. Ci parlavamo, eravamo amici. Suo fratello andava a calcio con mio fratello più grande, il quale è andato a dire a mio padre che giocavo troppo con questo bambino. Mio padre prima mi ha preso a sberle in cucina, poi mi ha portato su, in camera da letto, e mi ha picchiato tantissimo. Mi ha legato le mani sopra la testa con una cintura. Io urlavo e piangevo. Mi picchiava dappertutto, soprattutto sulle gambe».

Di racconto in racconto, «l’episodio della bicicletta: ero alle elementari. Giocavo con i miei fratelli, la mia bicicletta non aveva i freni, sono finita nel fosso, mi sono sporcata i vestiti. Nel tornare a casa, ho messo i piedi in una pozzanghera. Mio padre, faccia da arrabbiato, stringeva i denti, mi ha trascinata in camera, mi ha picchiato. Dalla terza media ha cominciato a non parlarmi più. Dopo la terza media, Maria fu iscritta in un istituto. «Non ho scelto io la scuola, ma i miei, perché già in quella scuola c’era mio fratello che così mi teneva d’occhio».

Nei cinque anni delle superiori, «con mio padre non ho quasi mai parlato». Per cinque anni, rincasata dalla scuola («Andavo abbastanza bene») la mamma la obbligava a fare le pulizie. «Mia madre pregava, dormiva. Io pulivo, preparavo la cena, studiavo la sera tardi o di notte. Per mia madre io dovevo imparare a fare la moglie, ma io preferivo studiare, volevo andare all’università, lo dicevo alla mamma che mi picchiava di solito con il mattarello; una volta, verso la fine della quinta superiore, aveva in mano una chiave inglese, me l’ha tirata in testa, avevo un segno sulla fronte. Una volta mi ha lanciato il mestolo bollente sul braccio: avevo una bruciatura. La mamma raccontava al papà che mi picchiava e lui era d’accordo. Le diceva: ‘Hai fatto bene’». E ancora: «Mio papà ha chiesto al telefono a mio zio di cercare qualcuno per farmi sposare in estate, ma è arrivato il Covid».

La compagna di classe e amica del cuore di Maria ha confermato: «La vedevo triste, non si confidava, al 4° anno ha iniziato a raccontarmi che in casa non era libera, non poteva usare lo smartphone, doveva fare le pulizie, studiava di notte. Mi ha confidato che la picchiavano, soprattutto la madre. Ho visto la bruciatura sul braccio». Il processo riprenderà il 19 novembre.

 

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