L'ANALISI
29 Aprile 2024 - 05:20
Il soldato Paolo Pagani
CREMONA - Li ha scoperti per caso. «L’abitazione di mia madre era piena di mobili e i mobili pieni di cose. Ho cominciato a cercare e da un cassetto è spuntato un manoscritto. Poi è saltato fuori anche l’altro». Ripresosi dalla sorpresa, Antonio Pagani, 72 anni, tecnico programmatore in pensione, ha ricucito quei ricordi con la cura e la pazienza di un appassionato custode della memoria. Ne è scaturito il diario del padre Paolo, diventato in seguito un libro: ‘Avere vent’anni nel 43’ (Book Sprint). Un prezioso documento che prende le mosse da Milano, dove il soldato è nato il 27 ottobre 1923, e approda a Creta: qui viene fatto prigioniero dai tedeschi. Ma che passa attraverso Cremona e la Caserma Manfredini. Al servizio militare e alla quotidianità in via Bissolati, infatti, è dedicata gran parte del primo testo. Protagonista di alcune delle pagine più toccanti è la famiglia cremonese che diede ospitalità alla giovane recluta. Il figlio lancia un appello: «Vorrei trovare i parenti di quelle persone per ringraziarli».
Lui, Antonio Pagani, non sapeva nulla di quegli scritti. «Mio papà non ci ha mai detto niente. Mia madre era a conoscenza della loro esistenza, ma anche lei non ne ha fatto parola. Un silenzio non insolito: si preferisce non rammentare certi episodi per riuscire a sopravvivere».
Alla stazione di Cremona Paolo Pagani, partito dalla Centrale di Milano su un treno carico di suoi coetanei, scende, il 10 gennaio 1943. Non è neanche ventenne. «Arriviamo in un grande viale, ci fanno girare in una strada laterale al termine della quale si vede l’ingresso della caserma dove siamo destinati», annota. L’inizio del periodo di addestramento è promettente. «Oggi, come primo giorno, non va poi male: pasta in brodo e un fetta di mortadella. Non è un pranzo particolarmente abbondante, ma pensando a quello che avrei potuto avere a casa con la tessera annonaria, mi sembra di essere un signore».
Il rancio c’è, ma dove consumarlo? «In camerata non si può andare, la sala convegni è chiusa, le panchine del cortile sono inutilizzabili perché coperte di neve. Ci rifugiamo allora sotto il porticato».
Una settimana dopo, la prima uscita per partecipare alla messa. «La gente si ferma a guardarci in modo strano, quasi sorridendo, e questo, lo confesso, mi irrita perché mi sembra che tutti ci stiano prendendo in giro».
Ma non è così. «Più tardi mi dovrò però accorgere che le mie prime impressioni erano decisamente errate perché, per la verità, il militare a Cremona non è trattato male».
Quello del ‘43 è un inverno rigido che causa problemi tra le mura della Manfredini. «Oggi il risveglio è piuttosto burrascoso. Non per modo di dire, ma nel vero senso della parola. Soffia un vento fortissimo che fa sbattere le imposte. Una pioggia torrenziale picchietta sui vetri e in vari punti della camerata si vedono a terra, sulle brande e sulle mensole, le gavette posizionate accuratamente per raccogliere le gocce di pioggia che cadono dal soffitto».
Un intero capitolo del diario è riservato a una famiglia cremonese, i Morenghi: abitavano in via Anguissola, sopra il cinema Italia, e a loro il soldato era stato indirizzato dalla zia Laura. «Messa a punto l’uniforme e lucidate a specchio le scarpe», il nipote bussa alla porta, che si spalanca su un’accoglienza calorosa. «Il pranzo preparato sembra una cosa più che lussuosa: riso e fagioli come primo piatto, poi una bistecchina con un pezzetto di formaggio. Il tutto accompagnato da due bei panini — pane bianco! — ed innaffiato con un buon bicchiere di vino». Il capofamiglia faceva il fornaio e poteva procurarsi quella che, in quel periodo, era una vera rarità. «È stata una bellissima serata, ma prima di salutarmi il signor Leone esige una promessa: che tornerò l’indomani. Naturalmente non mi faccio pregare».
La vita alla Manfredini scivola via tra «la solita visitina alla chiesa di Santa Rita» e la domenica allo stadio per «la partita Cremonese-Anconetana».
Ma scocca l’ora del trasferimento al porto di Brindisi e dell’imbarco, attraverso la Grecia, per Creta. L’artigliere conosce gli orrori della guerra. Con l’8 settembre e la resa ai tedeschi tutto cambia. «Fino a poco tempo fa eravamo degli alleati, abbiamo versato il sangue fianco a fianco. E ora cosa ne fanno di noi? Degli schiavi».
Una brutalità che lo porta a scrivere: «Quante volte ho atteso la morte come una liberazione. Quante volte ho invocato il tuo nome, mamma adorata». Dopo essere stato fatto prigioniero dai nazisti, cade nelle mani degli jugoslavi. Il 25 aprile porta la libertà, ma lui, indossando una casacca fatta con un sacco di iuta e pantaloni dello stesso materiale legati da una corda, potrà far ritorno a casa, sotto la neve, più di un anno dopo soltanto, il giorno di Natale del 1946.
Finisce qui la storia di Paolo Pagani, trasferitosi in seguito per motivi di lavoro a Mogliano Veneto (Treviso), dove una malattia lo ha stroncato il 30 gennaio 1989, e ne comincia un’altra. Quella di Antonio, arrivato l’anno scorso a Cremona per ripercorrere le orme paterne. «Grazie all’interessamento della locale Associazione artiglieri ho ottenuto per mio padre il rilascio di una Medaglia d’onore della Presidenza del Consiglio dei ministri e di altre onorificenze, naturalmente postume».
Poche settimane fa il figlio è tornato in città per presentare il libro in una serie di incontri , «organizzati grazie alla dedizione della professoressa Rossana Tedoldi», nelle scuole, alla libreria Del Convegno e presso il Comune di Castelverde. «Mi ha colpito in particolare l’attenzione dei ragazzi. È stata davvero una bellissima sorpresa».
Ha ancora un sogno che spera di coronare con la risposta a queste parole: «Sto cercando di mettermi in contatto con i discendenti della famiglia Morenghi o Marenghi (non si capisce bene il nome scritto in piccolo nel diario), ma sinora non ci sono riuscito. Vorrei abbracciarli per quel piatto di minestra calda e per quel pane bianco così generosamente donati a un soldato di nemmeno vent’anni».
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