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LE STORIE DI GIGIO

«Vi spiego mio nonno Leonardo Sciascia»

Vito Catalano è uno scrittore e si è trasferito a Cremona: «Un letterato, un saggista dal forte, fortissimo impegno civile che sapeva però separare la dimensione dell'artista da quella domestica»

Gilberto Bazoli

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redazione@laprovinciacr.it

15 Aprile 2024 - 05:20

Sciascia

Vito Catalano con il nonno Leonardo Sciascia

CREMONA - «Non faccio vita molto mondana, non sono un salottiero». Non in tanti si sono accorti che, temporaneamente, si è trasferito in città un bravo scrittore discendente di uno dei più grandi intellettuali italiani ed europei del Novecento: Vito Catalano, 45 anni a maggio, nipote di Leonardo Sciascia, figlio di sua figlia, Anna Maria. «Ci siamo trovati bene qui. Cremona è bella, ha un teatro attivo, conosco centri siciliani più o meno simili ad essa che non ne possiedono uno così. Cremona sa coltivare il suo lato musicale». Ed è stato il violino (poteva essere altrimenti?) a portare Catalano da Varsavia, dove ha abitato in precedenza, e da Palermo, dov'è nato, in riva al Po.

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Vito Catalano e la figlia Sofia

«Abbiamo seguito, dal settembre 2021, mia figlia, Sofia, oggi sedicenne, iscritta al secondo anno dell'Accademia Stauffer. Ha frequentato anche il Conservatorio di Cremona, ma da poco è passata a quello di Milano». La secondogenita, Maria, ha 13 anni. «Aveva cominciato anche lei a suonare, ma è più umorale della sorella, meno sistematica. Proprio come me». È dal ramo materno che le due sorelle hanno ereditato la passione per la musica. «Non certo dagli Sciascia, famosi per essere stonatissimi, compresi mio nonno e sua sorella».

Alla Stauffer la promettente allieva ci è entrata quasi per caso. «Una nostra amica, insegnante di Sofia, ha mandato a Salvatore Accardo un video di nostra figlia mentre suonava e lui, con immensa nostra sorpresa, ci ha telefonato e l'ha chiamata perché seguisse le lezioni sue e della moglie Laura Gorna».

C'è qualcosa della nostra città anche nella produzione letteraria di Catalano e nella sua ultima opera 'La figlia dell'avvelenatrice' (Vallecchi), pubblicata l'anno scorso. Una vicenda di sangue, intrighi, passioni ambientata nel 1700. Un racconto pervaso dai profumi e dai colori della sua isola. «Ha avuto, per così dire, una revisione cremonese. Tengo in molta considerazione il consiglio di Kipling: meglio lasciare il proprio libro per 3-4 anni nel cassetto e quando lo si riprenderà, ci si accorgerà subito delle cose che non vanno».

Pur non sbottonandosi, l'autore ammette che all'orizzonte «c'è un mio nuovo romanzo storico-avventuroso dalla connotazione cremonese. Nel senso che ci sto lavorando in questo periodo. È nato prima che mi trasferissi qui ma ha avuto un lungo sviluppo». Non è difficile immaginare che Catalano sia sempre sommerso dalle domande sull'illustre antenato, eppure ne parla sempre volentieri, con dolcezza, quasi fosse la prima volta.

«Era un nonno nel senso classico. Non si metteva a quattro zampe a giocare con noi, ma trascorreva molto tempo con i suoi nipoti. La sera raccontava i fatti di cui era stato testimone o che gli erano stati tramandati. Io stavo ad ascoltare soprattutto le storie sui carabinieri e i briganti del paese. Cucinava, gli piaceva che i nipoti gustassero quello che preparava e si risentiva se qualcosa non ci piaceva». Un letterato, un saggista dal forte, fortissimo impegno civile che sapeva però separare la dimensione dell'artista da quella domestica. «Aveva momenti di amarezza, ma in famiglia se ne distaccava. Nella vita quotidiana era molto normale».

Sciascia si divideva tra Palermo e Racalmuto dove trascorreva l'estate. «Non era per niente un uomo pratico. Se si fulminava una lampadina, andava in tilt. L'unica cosa che aveva chiesto per la sua casa in campagna è che il sole non si riflettesse sulle finestre dello studio e che questo si affacciasse sulle colline e un pino maestoso, caduto nel centenario della sua nascita». A Racalmuto, nel casolare in contrada Noce, si recava per le vacanze anche la famiglia di Catalano al completo. «Penso di esserci andato da quando avevo due mesi».

Il nonno scriveva il mattino, dopo colazione, e non di rado riceva visite, di politici e non solo. «Era molto ospitale, amichevole, cordiale. Aperto a parlare con tutti. Ricordo Marco Pannella: si è presentato alla Prima comunione di mio fratello. Un giorno è venuto anche Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio, ma io non c'ero».

Sciascia ammirava, in particolare, Pasolini, un altro gigante come lui. «Non si frequentavano, ma avevano una sintonia a distanza. Mio nonno, come dicevo, conduceva una vita da impiegato del catasto. Era molto amico di Gesualdo Bufalino e aveva un'intesa intellettuale anche con Calvino. Era un estimatore di Borges, hanno pranzato insieme a Roma, nel 1980: mi piacerebbe molto recuperare la registrazione di quella conversazione. Se credeva in Dio? Era un cristiano di formazione, sulle parole del Vangelo. Sosteneva che l'ateo è un'invenzione dei preti. Cercava risposte».

Nelle due case di Palermo e Racalmuto ogni cosa è rimasta com'era. «C'è gente che viene a visitarle, e noi apriamo le porte a tutti».Il ricco archivio Sciascia è passato alla Fondazione che porta il suo nome e di cui Catalano è il responsabile di ricerche ed editoria curando una collana di testi sciasciani. «Organizziamo conferenze, presentazione di libri ed altro. Alla Fondazione appartiene un patrimonio davvero particolare e poco conosciuto: la collezione di 200 ritratti circa di scrittori che mio nonno raccoglieva, da Gogol disegnato da Chagall a Erasmo da Rotterdam raffigurato da Van Dyck e un paio di volti firmati da Guttuso».

Leonardo Sciascia è ancora 'vivo', oggi più che mai. «Non lo dico io, ma i fatti. 'Il giorno della civetta', il suo titolo più venduto, la punta di diamante, sfiora ogni anno le trentamila copie. Mio nonno, poi, è molto studiato, in Italia come all'estero, e tradotto». Uno dei suoi romanzi preferiti da Catalano è 'Il cavaliere e la morte'. «Diceva che era la sua opera conclusiva. C'è molto di lui, il rapporto con la memoria e anche con la malattia. E c'è molta Italia, della sua situazione, di ieri e di oggi. Ha scritto in quelle pagine: 'La sicurezza del potere si fonda sull'insicurezza dei cittadini'. Aveva amore per la verità, il senso dell'umano. Cercava la giustizia. La giustizia era la sua ossessione che lo ha guidato in ogni scelta». Avere un nonno così ed essere scrittore come lo era lui: il nipote quasi anticipa la domanda. «Se avverto su di me la sua ombra ingombrante? Faccio quello che faccio perché mi piace. E considero la sua un'ombra benevola».

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