L'ANALISI
21 Aprile 2024 - 05:30
«I lupi però diventavano sempre più arditi e i due uomini furono spesso svegliati. Quelle bestiacce si avvicinavano talmente tanto, che i cani diventavano pazzi di terrore, ed era necessario ravvivare il fuoco di tanto in tanto, per tenere a distanza quegli audaci predoni. ‘Ho sentito dei marinai che raccontavano di navi inseguite dai pescicani’, osservò Bill, infilandosi sotto le coperte, dopo aver ravvivato il fuoco. ‘Ecco, questi lupi sono dei pescicani di terra. Conoscono i propri interessi meglio di noi e ci seguono in questa maniera per la loro stessa salvezza. Sanno che ci avranno, sono sicuri che ci avranno’».
Dalla lettura del nostro giornale di ieri, sabato, viene alla mente questo brano di ‘Zanna bianca’ scritto da Jack London, pubblicato nel 1906. «È già il quarto attacco che subiamo, e nemmeno le recinzioni bastano più a fermarli. Penso sia fondamentale far passare il messaggio che i lupi non sono più un problema legato alla realtà della montagna ma che, anche a Cremona, il rischio è alto». Così una sconfortata Alda Dalledonne ha commentato l’ennesimo raid nelle stalle della sua Società Agricola di San Daniele Po. Quattro incursioni in un solo anno. Portate avanti con una strategia molto raffinata, a testimonianza dell’aumentato grado di allarme.
Spiega ancora l’imprenditrice: «Erano due esemplari e, mentre uno s’introduceva nella stalla iniziando a cibarsi, l’altro faceva la guardia dall’esterno, per poi darsi il cambio». La modalità di predazione è identica e riconosciuta come attacco di lupo dai veterinari: le carcasse risultano azzannate alle cosce, i capi mangiati vivi sono morti per le ferite. È la legge della natura, si dirà. Vero, ma gli imprenditori zootecnici sottolineano che è davvero l’ora di occuparsi di una criticità fin qui sottovalutata.
Poche ore prima dell’attacco di San Daniele, a San Fiorano, nella bassa Lodigiana sono stati sbranati 29 agnelli di un gregge regolarmente recintato. A una decina di chilometri dal fiume Adda e dal confine cremonese. Il branco si muove nella zona del Basso Lodigiano con puntate nel Cremonese e sarebbe composto da almeno una ventina di esemplari. Il lupo è tornato in Lombardia intorno al 2000, dopo quasi 80 anni dalla sua scomparsa dal territorio regionale. Così come altri animali selvatici, è chiamato specie ombrello perché per vivere ha bisogno di grandi spazi e di una natura ben conservata, nella quale sono presenti numerose altre specie cui dare la caccia.
Al momento è accertata la presenza di 21 branchi che si muovono lungo il territorio per un numero complessivo di esemplari superiore alle 100 unità: otto nell’Oltrepo pavese, nove sulle aree alpine e quattro in pianura. I dati sono stati comunicati durante una recente seduta della commissione regionale speciale ‘Valorizzazione e tutela dei territori montani’. Nel 2023 le predazioni sono state un centinaio e ammonterebbe a circa 70mila euro l’importo degli indennizzi, riguardante sia agricoltori sia privati cittadini.
È stata sottolineata l’importanza della prevenzione, che oggi viene attuata prevalentemente attraverso il ricorso a recinzioni di protezione delle proprietà agricole e allevamenti. Nel 2019 il bando, rivolto alle imprese agricole danneggiate da passaggi di grandi carnivori, ha soddisfatto 59 domande per un importo di 250mila euro e nel 2022 le domande sono state 46 a fronte di 220mila euro. Il prossimo bando, aperto a giorni, prevede una dotazione finanziaria di ben un milione di euro a testimonianza del crescere dell’emergenza e sarà rivolto ad agricoltori per realizzare recinzioni fisse, mobili, elettrificate e non.
«Il problema lupo è reale, la sua presenza in Lombardia è in costante crescita. La prevenzione con le reti elettrificate e gli indennizzi da soli però non sono più sufficienti — commenta il presidente della commissione Giacomo Zamperini di FdI — ritengo che oggi sia necessario lavorare tutti insieme per arrivare alla predisposizione di un piano di gestione e contenimento di questa specie, come avviene già per nutrie e cinghiali».
Una presenza sempre più massiccia che rende urgente l’intervento. Le stalle moderne non hanno muri o cancelli come una volta, sono strutture aperte nel rispetto delle disposizioni in materia di sicurezza sul lavoro e di benessere animale. E così, per dirla con le efficaci parole di Filippo Gasparini, presidente di Confagricoltura Piacenza, «se in un vigneto abbiamo un attacco di peronospora si agisce per eliminarla, se in allevamento abbiamo un’epidemia si interviene per eradicarla. Abbiamo i lupi che ormai identificano le nostre stalle come il loro supermercato e si ragiona sull’abbassare il grado di tutela del lupo, che è la peronospora della nostra stalla. Il lupo in stalla non ci deve essere. Punto. Il lupo non ha alcuna responsabilità, la colpa è di chi, non assumendo decisioni, lascia che le situazioni degenerino invocando un equilibrio naturale che qui è evidentemente sovvertito. Non si può continuare a ignorare la situazione sino a quando sarà divenuta ingestibile, come purtroppo abbiamo visto con i cinghiali».
E conclude: «I capi morti in azienda sono classificati come incuria e impattano negativamente sui parametri di valutazione dell’azienda stessa, vincolanti ai fini dei sostegni. L’autorità pubblica però non è più autorevole, perché da un lato ci viene a fare le pulci su eventuali capi deceduti in allevamento e poi è essa stessa, con queste morti frutto di un mancato intervento, a esserne causa».
L’immagine romantica del lupo come simbolo di libertà ha ceduto il passo alla realtà dei danni causati agli allevamenti, alla biodiversità e alla sicurezza delle persone. La questione è diventata un terreno di scontro per chi difende la conservazione della fauna selvatica e chi cerca di proteggere le attività agricole e pastorali. Il confronto tra le due prospettive spesso genera tensioni e conflitti che richiedono un approccio equilibrato e consapevole delle autorità competenti. Uno spirito che ancora non si vede.
È stato calcolato che ogni lupo italiano costa decine di migliaia di euro all’anno di fondi pubblici in monitoraggi, studi, censimenti, esperti, recuperi e cure, risarcimenti dei danni e contributi per i sistemi di protezione. Tutto questo in nome di un animale che, secondo la Red list dell’Iucn, l’Unione Mondiale per la Conservazione della Natura, corre lo stesso rischio di estinzione del ratto, del cinghiale, della nutria e del pesce siluro. Emiliano Mori, ricercatore del Cnr, ricorda che «quella del lupo è una specie protetta, non è cacciabile nemmeno in deroga». Scende a valle e si avvicina alle zone abitate per «la mancata gestione degli ungulati, sua preda principale. Arriva perché aumenta la densità delle prede, il cibo a loro disposizione, ma anche per la presenza dei rifiuti sulle strade».
Parlando con Arezzo News, alla domanda su come come ci si può difendere risponde: «Deve essere gestita tutta la fauna riducendo la presenza dei cinghiali vicino agli abitati, gestire meglio i rifiuti, proteggere gli animali domestici con recinzioni». Il lupo non è un mostro, è intelligente, un grande predatore che in passato ha subito una fortissima persecuzione e ora sta recuperando ciò che aveva perso negli anni. Non è sicuramente un fenomeno da sottovalutare, ma da comprendere. Per intervenire efficacemente.
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