L'ANALISI
07 Aprile 2024 - 05:30
Mezzo secolo può bastare per programmare futuro e sopravvivenza? Messa così, può sembrare una domanda retorica, anzi suggestiva, cioè con risposta incorporata: ma certamente, cinquant’anni sono una vita! Conoscendo un po’ di storia locale e i tempi della politica, la risposta potrebbe essere decisamente meno netta. Eppure, in un Comune della provincia cremonese su quattro la questione dovrebbe essere posta fin da oggi. Perché potrebbe «non avere più popolazione» entro i prossimi 50 anni, come si legge nel recente working paper di PoliS-Lombardia, l’istituto per il supporto alle politiche regionali. Il fenomeno riguarda per larghissima parte i micro e piccoli comuni, in particolare quelli casalaschi. Un’onda che ha invece lasciato praticamente indenne il Cremasco.
È così nonostante il fatto che durante la pandemia Covid — e immediatamente dopo — erano fiorite statistiche secondo le quali l’Italia era entrata nella new age della fuga dalle città per cercare rifugio, pace, tranquillità e sicurezza (dal virus, ma non solo) nelle campagne.
Si legge nel report: «I comuni ad alto rischio della provincia di Cremona, con un tasso migratorio totale negativo (-1,7 per mille in media nell’ultimo decennio) presentano un segnale di allarme soprattutto per quanto concerne la scarsa capacità attrattiva che si va ad aggiungere, aggravandone il quadro, a un tasso di crescita naturale anch’esso negativo (-9,8 per mille)».
L’inverno demografico, che pure tende al gelo anche dalle nostre parti, è dunque solo una delle concause se, come si legge ancora, «lo spopolamento del territorio è un processo degenerativo incrementale in termini di perdita di vitalità demografica e sociale».
In altri termini, prosegue l’analisi, «le aree che progressivamente perdono popolazione, attività, attrattività, tendono a farlo sempre più. Si instaurano circoli viziosi difficilmente reversibili: soprattutto i giovani residenti, se non riconoscono motivi significativi per restare sul territorio, tendono a muoversi altrove per realizzare i propri progetti formativi, lavorativi, familiari, ricreativi. Con una ridotta base di giovani e giovani adulti, potenziali studenti e lavoratori, si riduce la capacità del territorio di produrre, offrire servizi, innovare».
E ancora: «La popolazione diventerà sempre più anziana e bisognosa di servizi socio assistenziali. E muoiono i luoghi. Gli enti locali talvolta faticano a soddisfare i bisogni a dispetto dell’impegno dei volontari. Il terzo settore ha un ruolo sempre più decisivo e indispensabile in ambito sociale».
Il rischio forte è quello di perdere tradizioni e identità locali. A presidiare il territorio rimangono solo gli anziani, finché vivono. Come c’era da aspettarsi i sindaci dei piccoli paesi che abbiamo intervistato hanno difeso le loro comunità, qualcuno ne ha ammesso i deficit e spiegate le cause. Forse parlare di rischio spopolamento oggi ha un sapore un po’ troppo catastrofico, però se non si invertono i fattori, a medio e lungo termine la fine è nota, per citare il titolo di un famoso romanzo (poi diventato anche un film del misterioso scrittore Geoffrey Holiday Hall, uno splendido giallo pubblicato in Italia nel 1990). Da anni è in atto un movimento costante di svuotamento dei piccoli comuni, soprattutto montani o a vocazione agricola. Le scuole chiudono, per mancanza di bambini; le banche spostano gli sportelli (solo lo scorso anno in Italia ne sono stati chiusi ben 800); il trasporto pubblico è problematico; i piccoli ospedali chiudono. In parole povere, dove non si produce ricchezza la gente non può vivere e i servizi vengono tagliati. I giovani, terminato il ciclo scolastico, fanno le valigie per trovare lavoro altrove.
Le amministrazioni locali provano a condividere i servizi tra più comuni, ma i referendum per le fusioni sono quasi sempre stati bocciati dagli abitanti o le unioni sono crollate miseramente. Sempre per questione di campanile e nonostante l’arrivo di finanziamenti supplementari straordinari da parte dello Stato. Lo sappiamo bene in provincia di Cremona, dove nel settembre scorso gli abitanti di Pieve d’Olmi hanno bocciato la fusione con San Daniele Po e dove nei giorni scorsi è stato sancito il fallimento dell’Unione Terra di Cascine con Pozzaglio che ha ‘divorziato’ da Castelverde.
L’Anci, l’Associazione nazionale dei Comuni italiani, insieme ai sindaci dei piccoli comuni ha provato nelle scorse settimane a proporre al governo nazionale un’agenda: «In questi anni abbiamo avuto uno spopolamento dei piccoli comuni che non può essere considerato dalla politica nazionale un problema dei sindaci o delle comunità dei piccoli comuni, è un problema nazionale, perché i piccoli comuni sono il 70 per cento dei comuni italiani, occupano il 56 per cento della superficie dell’intero paese, ci abitano 10,5 milioni di persone, quindi il problema dei piccoli comuni è nazionale».
Considerando la scarsa attenzione fin qui ricevuta da Roma, la battaglia va combattuta principalmente a livello locale. Qualcosa di importante si è mosso grazie al Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza.
I piccoli Comuni italiani, hanno risposto in maniera significativa ai bandi per la rigenerazione urbana e per la transizione digitale ed energetica. Sono però cambiate le regole del gioco.
Se prima la Regione garantiva i contributi durante la fase di avanzamento dei lavori, ora col Pnrr gli amministratori devono anticipare i pagamenti, a volte dell’intero importo, e restare in attesa dei rimborsi. Soldi che non hanno, progetti che rischiano di restare a metà e rischio di tracollo finanziario. A salvare questo piccolo mondo antico potranno essere iniziative per richiamare altri abitanti mettendo a disposizione le case abbandonate o accordando incentivi fiscali per aziende e nuovi residenti. Fondamentale potenziare i servizi essenziali, dalla scuola alla salute alla mobilità. Impegni significativi per le magre casse dei piccolo comuni.
Indispensabile però è uscire dalla logica del campanile per entrare in un processo di collaborazione con i vicini. Come abbiamo sottolineato all’inizio, l’area Cremasca è la meno interessata dalle funeste previsioni di PoliS-Lombardia. Salvo Moscazzano, gli altri comuni medi e piccoli sembrano godere di buone prospettive. Il perché e fin troppo semplice da spiegare: questa area della provincia ha storicamente l’abitudine a mettere in comune progetti e servizi.
Nel 1962, sindaci pionieri hanno fondato il Consorzio intercomunale cremasco, che è stato l’inizio della cooperazione territoriale. Un cammino che ha portato alla creazione dell’Area omogenea e di ConsorzioIt, società in house con soci i comuni cremaschi dei quali è il braccio operativo. La sua mission è favorire lo sviluppo e l’efficientamento dei servizi comunali e sovraccomunali, la transizione digitale, energetica ed ecologica; inoltre funge da Centrale unica di committenza per bandi e finanziamenti oltre che per progetti condivisi. Non fusione ma alleanza.
Ci sono voluti oltre sessant’anni per arrivarci, lungo un percorso non privo di tensioni, alti e bassi e stop and go. Cinquant’anni non sono bastati per arrivare fin qui. Ecco perché i sindaci dei piccoli e medi comuni delle altre aree della provincia di Cremona farebbero bene a interrogarsi fin d’ora se non sia il caso di ispirarsi a quell’esperienza. L’imminente campagna elettorale è l’occasione migliore per buttare il cuore oltre l’ostacolo. Mezzo secolo passa in fretta.
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