L'ANALISI
11 Marzo 2024 - 05:20
Sergio Tarquinio
CREMONA - Si è parlato e si parla molto dell'uno, meno dell'altro. «Eppure l'unico grande quadro di un cremonese esposto in un museo americano è il suo». Sergio Tarquinio, 98 anni, maestro riconosciuto di pittura, incisione, disegno e illustratore, un nome che non ha bisogno di presentazioni, ricorda con affetto il fratello maggiore Enzo, deceduto il 20 ottobre 1985, artista come lui. «È un po’ anche colpa mia se non ha avuto tutto quello che meritava. È arrivato il momento di rendergli giustizia».
All’inizio della Seconda Guerra mondiale Enzo fu mandato sul fronte russo. Per poco non venne ucciso ma solo leggermente ferito. Rientrato in Italia per ristabilirsi, partì per la Sicilia dove, con altri componenti del suo battaglione, il 10 luglio 1943 fu catturato dagli alleati. Venne deportato in Marocco e da lì, dopo circa dieci settimane, trasferito negli Stati Uniti. Nel campo di prigionia di Douglas, nel Wyoming, lo stato dei cowboy, degli indiani, delle Montagne Rocciose e del Parco nazionale di Yellowstone. Un colonnello che conosceva il suo talento gli chiese di fare qualcosa per il Club degli ufficiali. E lui creò una coppia di quadri di 3 metri per 3 che ritraevano una fattoria», racconta Sergio.
Si trattava di murales a olio: uno è scomparso; l'altro, raffigurante un ranch con i cavalli dentro e fuori gli steccati, è conservato presso l'Officers Club, l'unico edificio del campo a non essere stato distrutto, che fa parte del Wyoming Pioneer Memorial Museum. «È davvero un bel quadro. Mi disse che l’altra metà, quella andata perduta, era ancora migliore: aveva come soggetto dei cowboy a cavallo che riportavano le mucche nelle stalle. Per completare quelle due opere aveva impiegato quattro mesi».
È stata Laura E. Ruberto, docente di ruolo presso il Berkeley Ciity College, a scavare con pazienza e passione nella biografia del soldato e artista cremonese. «Tra il materiale nell’archivio del museo ci sono altri due suoi piccoli quadri: uno riproduce Venezia, l’altro Santa Rita da Cascia», spiega la ricercatrice americana, innamorata, anche per ragioni professionali, del nostro Paese.
Enzo doveva essere un uomo generoso: dipingeva non solo per i comandanti militari statunitensi, ma anche per gli altri detenuti italiani come lui. Uno di loro, Sabatino Casoni, romano, gli domandò, mostrandogli le loro fotografie, di raffigurare la bellissima moglie, Adriana, e il figlio più piccolo, Piero. E, qui, una storia nella storia, svelata dalla nuora di Sabatino, Gabriella Dennetta. «Fu imbarcato a Trapani, destinazione Biserta, in Tunisia. Catturato nel maggio del 1943, venne trasferito a Douglas. Il bimbo del quadro nacque nel 1943 e mori due anni dopo per una polmonite durante l'incarcerazione del padre. Finita la guerra, Sabatino tornò a casa portando con sé i due ritratti».
È facile immaginare quale valore affettivo potesse avere quel disegno per un padre che, se non per un breve momento, non aveva conosciuto il figlio. «Purtroppo una peritonite fulminante stroncò nel 1947, a soli 37 anni, anche Sabatino. I quadri sono di proprietà della nostra famiglia», riprende la nuora del compagno e amico di Enzo.
L’altro Tarquinio, il più noto, il più acclamato, non sapeva di quelle due tavole. Guarda e riguarda da vicino le grandi fotocopie colorate che le riproducono. Anche se la sua vista non è più quella di una volta (ma la sua mente sì); riconosce senza tentennamenti lo stile del fratello. «Mi piace soprattutto il bambino. E' un’opera moderna, sembra fatta oggi».
Rimpatriato dopo la guerra, Enzo ha riannodato i fili della sua carriera di artista, facendo lavori di decorazione, restauro e progettazione grafica. Tra i suoi committenti, la Perugina, la Tassoni, la Combattenti, la Vergani, la Sperlari.
«Tutto quello che ho imparato me lo ha insegnato lui. Ha cominciato da bambino a farlo. Era tecnicamente superlativo, in particolare nell'utilizzo del colore», riprende il fratello.
Molto apprezzati sono i paesaggi con il Po e le sue nebbie. Sergio racconta un episodio: «Rimase chiuso dentro al Prado di Madrid, alla pausa del pranzo, perché i custodi non si erano accorti della sua presenza. Lo ritrovarono all'apertura del museo. Era tranquillissimo. Gli chiesero: non hai avuto fame? E lui: né fame né sete, davanti a questi capolavori. Ammirava molto Velasquez».
Sergio ha sfondato, Enzo è rimasto nell'ombra. «Era bloccato dalla sua timidezza. Mia mamma me lo diceva sempre: tuo fratello non è come te che neanche il diavolo ti ferma. Probabilmente era soffocato dalla mia personalità, dalla mia esuberanza. Non l'ho aiutato, e ora la coscienza mi rimorde. Se lo avessi tenuto vicino a me, adesso si parlerebbe di due artisti invece che di uno solo. Meritava di più. Faccio atto di contrizione: mi sento in colpa per non averlo valorizzato».
Sergio mostra alcuni quadri mai esposti del fratello: L'Inquisitore, due ritratti di personaggi del '600, lo splendido abbozzo di una Madonna blu. «Me li hanno richiesti varie volte, ma sono intoccabili. Sono le uniche cose che ho di lui. Forse sono ancora in tempo per restituirgli ciò che gli è stato tolto».
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