L'ANALISI
07 Gennaio 2024 - 05:00
Lacrime di coccodrillo versus un giusto e adeguato rimedio riparatorio. Potrebbe essere questa la sintesi di fronte a due episodi, diametralmente opposti nei loro possibili effetti (va subito precisato), ma con il comune denominatore dell’irresponsabilità.
Il primo è avvenuto nella notte tra mercoledì e giovedì scorso a Milano e ha visto protagonisti tre giovani. Hanno teso un cavo d’acciaio ad altezza d’uomo in mezzo a un viale a grande scorrimento di traffico. Uno scherzo criminale «perché ci annoiavamo», come si è giustificato con i carabinieri il 24enne fermato poco dopo e successivamente arrestato. Non si piangono vittime solo grazie all’immediato allarme lanciato da un 26enne residente in zona che dalla sua finestra ha visto i tre «annoiati» all’opera, ha sentito le loro risate e le urla di soddisfazione dopo che un’auto è incappata in quel cavo. «Chiedo scusa per quello che ho fatto, ho sbagliato. Al momento non mi sono reso conto della gravità, ma non volevo uccidere nessuno», ha piagnucolato durante l’interrogatorio davanti al gip. Lacrime di coccodrillo, appunto.
Il secondo episodio, di segno decisamente meno drammatico e dalle conseguenze infinitamente meno devastanti, è avvenuto dalle nostre parti, a Torre de’ Picenardi, nella palazzina della piscina comunale concessa a un gruppo di ragazzi del paese e dei dintorni per il veglione di Capodanno. È finita con vetri e porte rotte, interruttori della luce scassati, rifiuti sparsi ovunque. Un episodio di vandalismo. Il sindaco Mario Bazzani si è rivolto ai genitori dei giovanissimi invitandoli a spiegare ai loro figli «la necessità di rispettare ciò che è della collettività».
Esortazione raccolta: evidentemente ‘processati’ in famiglia, i ragazzi si sono presentati in comune, hanno ammesso le loro colpe rimboccandosi poi le maniche per rimettere tutto in ordine e riparare i danni.
«Mamme, papà e i loro ragazzi sono stati bravi, hanno trasformato un comportamento discutibile in un’occasione di crescita, questo significa aver intrapreso il giusto cammino verso il raggiungimento della cittadinanza consapevole», ha chiosato il primo cittadino di Torre. Giusta e adeguata riparazione, appunto. Grazie anche a genitori che non si sono girati dall’altra parte rispetto alle responsabilità dei loro ragazzi. Uomini e donne che hanno ascoltato i loro figli e hanno dato il buon esempio.
Certo, si tratta di due situazioni decisamente non equiparabili per gli effetti (potenzialmente mortali la prima, quella di Milano, di grave maleducazione la seconda), ma che partono dalla stessa ‘cultura’: l’assenza di consapevolezza della gravità del gesto e il totale disinteresse verso l’altro, verso la cosa pubblica. Incoscienza e superficialità.
Nello scherzo criminale di Milano c’è però molto di più. La mefitica influenza dei social. Che, in casi come questo, diventano a-social. Nel primo interrogatorio il giovane arrestato, avrebbe indicato solo i nomi di battesimo dei complici, dichiarando però di non conoscerne il cognome in quanto incontrati sui social; ne ha però indicato i profili su Instagram. Il cerchio attorno a loro sta per chiudersi. Per tutti e tre si prospettano accuse pesantissime che possono aprire loro a lungo la porta di una cella. I carabinieri sono risaliti al nome di uno grazie all’account con il quale ha noleggiato lo scooter elettrico usato durante il raid notturno. Risate e impennate a bordo di quel motorino sono state immortalate con filmati postati in rete. Viene fin troppo facile supporre che l’insano passatempo dei tre non fosse tanto e non solo uno scherzo criminale quanto piuttosto la speranza di riuscire a riprendere con il telefonino eventuali incidenti causati per poi postare il tutto in cerca di clic e di un quarto d’ora di celebrità tra il popolo affamato di orrore che affolla i social. Agghiacciante, se fosse così.
«Sono eccitati dal pericolo e in cerca di visibilità», ha commentato Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta esperto dell’età evolutiva, presidente della Fondazione Minotauro. Che ha proseguito: «Descriverli come ragazzi immaturi che non si rendono conto delle conseguenze delle loro azioni è l’opposto di ciò che dovremmo fare. Il pericolo è ciò che cercano: li eccita perché può servire per ottenere una cosa molto concreta, la visibilità. C’è una ricerca spasmodica di popolarità in chiave identitaria. Senza quella, oggi, non sei niente».
Ecco, il nodo della questione sta tutto qui. Siamo passati dalla generazione del telefono fisso a quella che fissa il telefono, per dirla con una citazione presa in prestito da un ascoltatore di Radio 1 Rai, intervenuto in una trasmissione dedicata proprio a questo tema. Quando il tempo trascorso ad instaurare e mantenere relazioni online rimpiazza il tempo trascorso nelle reali interazioni umane, è probabile che venga a mancare una più profonda intimità con gli altri. Quindi è necessario ragionare sull’impatto delle relazioni virtuali sullo stile di vita. Un eccessivo uso dei social network potrebbe degenerare in problematiche interpersonali e danneggiare le vite di chi lo fa. Una sana riflessione individuale in questo senso andrebbe fatta, ammonisce Loredana Di Cicco, psicologa clinica e del lavoro esperta in neuroscienze per le disabilità cognitive. Che scrive: «Secondo alcuni studi, i social network agiscono come deterrente e via di fuga per persone che nella vita sociale reale sperimentano difficoltà di socializzazione; a causa di tratti del carattere come la timidezza o situazioni d’isolamento sociale, l’utilizzo delle nuove tecnologie sembra divenire fonte privilegiata di emozioni e sensazioni appaganti e intense, seppure scaturite da dimensioni del tutto virtuali».
Vedere morire qualcuno decapitato da un cavo d’acciaio teso per strada non è una tragedia virtuale, ma reale. Perché la vita non è un videogioco.
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