L'ANALISI
04 Agosto 2023 - 05:00
CREMONA - Il Po largo e paludoso, le sue rive coperte da boschi e foreste dove si aggirano animali favolosi: cervi giganti, mammut, leoni, lupi e leopardi, bisonti enormi, e nella macchia più fitta orsi, e perfino, defilati, in qualche radura, rinoceronti. Tra la vegetazione due fuochi di accampamenti: quello di una gruppo di uomini sapiens, che arrostisce la coscia di un bisonte, e quello di uomini di Neanderthal intenti a cuocere la carcassa di un orso. Una ricostruzione fantastica dell'ambiente padano, fantastica ma neppure tanto, considerati i reperti archeologici che il Po restituisce di tanto in tanto. Dal fiume infatti emergono tracce di vita che aiutano gli esperti a ricostruire quello che era l’ambiente padano preistorico.
Il fiume, grazie al mitico dio Nereo (che abita nelle sue profondità e indica a Ercole dove si trova il giardino delle Esperidi) cambia e si modifica quotidianamente: su una spiaggia che prima non c'era si può trovare il dente di un leone, su un isolotto appena emerso con la secca la tibia di un leopardo o il cranio di un lupo; in un groviglio di ramaglie portate a valle dalla corrente si nota il possente osso di un mammut, oppure il palco di un cervo megalocero gigante o il corno di un bisonte ‘priscus’, ai piedi di un pioppo si può vedere una 'socca', strana, sembra avere gli occhi, e poi si scopre, magari, che è il cranio di un rinoceronte; il giorno dopo una piena si vede spuntare dal fango la parte di un tronco buono per far legna, ma scavando si può scoprire che è una piroga che gli uomini usavano per navigare il fiume (a volte la datazione di queste imbarcazioni è molto incerta).
E poi l’uomo, i primi abitatori della pianura: la calotta di un sapiens o la mandibola di un sapiens sapiens, se non addirittura l'osso frontale di un Neanderthal. Il Cremonese deve al Po anche questo: la ricostruzione della sua identità in un periodo che non si può definire neppure storia, ma preistoria, appunto. La storia dei ritrovamenti fluviali ha una lunga storiografia da sempre, a volte leggendaria, con racconti mirabolanti, il fiume di leggende ne ha tante, per cui, almeno questa volta, è cosa buona scrivere di fatti.
Come quello accaduto a Giacomo Bertocchi, assiduo frequentatore del Po, che una limpida giornata estiva (nel luglio del 2017) facendo una passeggiata su uno spiaggione si imbatte su un sasso ricurvo, capisce che non può essere una pietra e lo consegna al Museo Paleologico di San Daniele. I due esperti, Davide Persico e Simone Ravara non hanno dubbi: si tratta di un dente di leone, un leone padano. E a proposito di felini ritrovamento eccezionale anche per Renato Bandera, uno di più assidui frequentatori del Po, che nel gennaio del 2015 nota un osso mai visto prima sulla spiaggia e al solito lo porta a San Daniele, anche questa volta e l’analisi rivela che è una tibia di leopardo: «Un’emozione bellissima».
Stessa emozione per quattro navigatori padani, Enzo Stroppi, Giuseppe Ignoti, Giuseppe Bellini e Adis Badaracchi, che durante una gita in barca al Cristo, nel settembre del 2011 intuiscono che il pezzo di tronco che hanno di fronte non è legno, ma osso: e infatti è una zanna di mammut. E che dire allora di Ennio Mondoni che nel 2013 a Spinadesco trova il cranio di un rinoceronte preistorico, oggi il reperto è una delle star del Museo di San Daniele: come lo è l’enorme molare di mammut trovato al Sales o il cranio di orso che arriva da Motta Baluffi.
Il Po restituisce (con più rarità) anche frammenti di umanità. Nel 2008, lo scrivente, trova, tra il fango di una costa appena scavata da una pienetta, il frontale di un cranio che Persico e Ravara, attribuiscono al un uomo di Nenderthal, chiamato Paus, che fa il giro di mezza Europa per le analisi del caso. E di recente lo stesso Persico a Isola Serafini (Monticelli d’Ongina) trova il cranio di un uomo sapiens arcaico, risalente al Paleolitico e battezzato Acamar. Reperti che vanno ad arricchire la collezione del Museo Paleontologico che vanta già una decina di crani di homo sapiens sapiens, ritrovati sull’asta del Po compresa tra l’Isola del Deserto, Pieve d’Olmi, Motta Baluffi, Torricella di Sissa, Roccabianca, Zibello. Il Po, ancora una volta, si dimostra generoso e attento alla sua storia.
CREMONA - Il Po restituisce reperti preistorici, ma anche i segni lasciati in epoche più recenti e non per questo meno affascinanti. Anzi, forse anche più misteriosi, perché la loro comparsa repentina, e altrettanto la loro scomparsa, non permette uno studio approfondito. Risalendo il Po, al Sales, lo scorso anno sono emersi quelli che sembrano mattoni di un muro o di una costruzione. I reperti erano in mezzo al fiume. Cercare di fare uno studio si è dimostrato molto complicato. Qualcuno ha ipotizzato fossero i resti della chiesa del lazzaretto (ogni anno in questo tratto, durante la processione dell'Assunta, viene affidata al Po una corona di fiori).
Il 'muro' è, del resto, in linea con la cosiddetta Torre del lazzaretto che svetta nei campi, poco prima di Brancere (anche se forse la colonna potrebbe avere avuto anche un altro significato: come segnare, a esempio, il confine con lo Stato parmense, ma anche qui le prove non ci sono). Ma sembra essere sicuro che le mura, scavate dalla piena del 2019 subito dopo il Sales, alla Capannina, potessero appartenere appunto a un posto di frontiera settecentesco, dove i gabellieri cremonesi riscuotevano il pedaggio dai barcaioli... stranieri, mantovani, casalaschi, parmigiani e un tempo perfino veneti.
E ancora qualche ansa più a nord il Po ha restituito, prima del Ponticello (appunto) di Castelvetro, nella sua interezza i piloni in legno del ponte, da sempre al centro di diatribe tra gli studiosi e appassionati del fiume: ponte spagnolo seicentesco? Francese, o tedesco della II Guerra mondiale? Alcune recenti testimonianze, di anziani pescatori, hanno assicurato che il ponte era attivo subito dopo la guerra e che aveva il suo terminale alla lanca Livrini, dove venivano gettate le reti da pesca (fino agli anni ‘50 i pescatori cremonesi, piacentini o parmigiani si sono presi a schioppettate per arginare gli sconfinamenti).
Subito dopo il ponte che collega il Cremonese e il Piacentino si apre la cosiddetta Canalina: risalendola porta fino alla lanca Maginot, oggi percorso impossibile visto che è interrata e un grande pioppo caduto sbarra l'unico, ristrettissimo passaggio. La Canalina costeggia l'Isola del Deserto, segnalata dalle carte antiche con le cascine, i campi, le coltivazioni e le peschiere che fino al XVIII secolo la caratterizzavano. E proprio i muri delle antiche costruzioni sono emersi proprio dove il passaggio si restringe e il Po ancora una volta restituisce un pezzo della sua storia. Una storia che era anche di navigazione e pesca intense fino al Novecento. Lo testimoniano le barche riemerse sullo spiaggione, i resti di un bellissimo barcone, forse ottocentesco, con tutti gli elementi in legno uniti con grossi chiodi in ferro e perni rivoltati e lo scafo di una imbarcazione da ponte, ormai sfaldata dalla ruggine e dall'impeto del Po (quando era impetuoso).
Sulla spiaggia invece si notano i recinti di mattoni e fascine che facevano da sbarramento alle peschiere. Cascine che fanno il paio con le costruzioni emerse sulla spiaggia subito dopo il Cristo di Spinadesco, che lo scorso anno sono diventate piscinette, dove i barcaioli si sedevano con la gambe in acqua per prendere il sole e rinfrescarsi. Oltre questo limite, i ritrovamenti si rarefanno ed emergono le cose più strane, come il salvagente di una nave battente bandiera panamense: come ci sia arrivato alle foci dell'Adda e sulle spiagge del Po, i due fiumi non ce lo diranno mai.
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