L'ANALISI
CREMONA
25 Maggio 2023 - 16:43
CREMONA - «Non sussistono elementi che consentano di riconoscere le circostanze attenuanti generiche all’imputato», il quale, ancorché incensurato, «non ha in alcun modo manifestato, nel corso del processo o in epoca antecedente, alcun sintomo di pentimento e, non sottoponendosi a esame, non ha peraltro inteso offrire la propria versione dei fatti».
Lo scrivono i giudici nelle 14 pagine di motivazione della sentenza di condanna a 8 anni di reclusione per l’operaio di 51 anni, il quale, affetto da Hiv, non lo rivelò mai alla compagna nei quattro anni di convivenza – dal 2016 al 2020 - trasmettendole l’infezione, «cagionandole un danno di estrema gravità» e mostrando nei suoi confronti «una totale e ingiustificabile assenza di rispetto e di protezione». L’uomo è stato condannato a risarcire 100mila euro di danni (una provvisionale immediatamente esecutiva) alla ex, parte civile con l’avvocato Alessandro Vezzoni.
Non era, l’imputato, «l’uomo della strada inconsapevole del rischio di trasmissione sessuale del virus»: una inconsapevolezza tale da escludere il dolo eventuale. Come è emerso dal carteggio e durante il processo, dall’8 maggio del 2010, l’imputato sapeva di essere affetto dall’Hiv. Nel 2012 cominciò un percorso di cura antiretrovirale, «incostante e interrotto dal 2017 al 2020», scrivono i giudici.
«Per ben dieci anni si premurò che né il proprio medico di base, né i familiari, né terzi con cui venne a contatto venissero a conoscenza della sua patologia, manifestando così una chiara volontà di occultamento della stessa — è scritto nella motivazione della sentenza —. Pur nel silenzio circa la propria malattia, intese preservare le persone che frequentò fino al 2016, ma non fece altrettanto con la sua compagna». Maria (nome volutamente di fantasia, ndr) lo scoprì - per caso - il 20 febbraio del 2020. Il convivente finì fuoristrada con l’auto, lei si precipitò, chiamò l’ambulanza, lo accompagnò al Pronto soccorso. Tra le mani le capitò il carteggio, venne a galla la verità e sobbalzò. Le cascò il mondo addosso, tradita dall’uomo che amava e del quale si fidava.
Un campanellino di allarme suonò nel 2018, quando un tizio residente in un’altra città (è stato sentito al processo) telefonò alla donna, convinto che lei fosse solo amica dell’operaio. La informò di aver avuto con Cristiano una relazione e che a casa aveva ancora i suoi effetti personali. Lei non credette «al primo che telefonava», ma al convivente che la rassicurò: «Non so quasi neanche chi sia».
Nel 2020, fu lei a telefonare a quel tizio. Gli raccontò tutto, dall’incidente allo shock nell’aver appreso che il suo fidanzato dal 2010 aveva l’Hiv. Quel tizio le raccontò di aver conosciuto l’operaio nel 2016 attraverso una chat per incontri sessuali. Di aver avuto con lui una relazione, di sapere della malattia. Le raccontò che l’operaio decise di troncare la loro frequentazione, preferendo continuare la storia con lei. In quella conversazione, la donna gli chiese se stesse bene, gli suggerì di fare gli esami del sangue. Quando lei scoprì di essere positiva all’Hiv, lo richiamò. Lui non aveva contratto la malattia.
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