L'ANALISI
18 Maggio 2023 - 19:00
CREMONA - Quattro tunisini e un filippino, due marocchini e due senegalesi, un algerino e uno della Costa d’Avorio, tre romeni, due georgiani, un brasiliano. E sei italiani: due di Milano e uno di Sesto San Giovanni (Milano), un leccese e un salernitano, un palermitano e un sardo. Ventitré detenuti in tutto: sono a giudizio per la rivolta scoppiata a Cà del Ferro la notte dell’ 8 marzo del 2020 in piena pandemia.
Una pagina di violenza e devastazioni in due sezioni del vecchio padiglione: sgabelli in legno, sedie in plastica e coperte dati alle fiamme, telecamere distrutte, agenti della polizia penitenziari aggrediti anche con spranghe di ferro ricavate dalle finestre spaccate. Non solo fuoco, ma anche acqua, quella degli idranti con cui fu allagato un piano. Radunata sediziosa, resistenza e minaccia a pubblico ufficiale, danneggiamento sono i reati a vario titolo contestati.
Diciannove detenuti hanno scelto il rito ordinario. Due due di loro sono irreperibili, perché, nel frattempo, erano stati espulsi (li difendono, tra gli altri, gli avvocati Gianluca Pasquali, Cesare Grazioli, Lapo Pasquetti e Matteo Mantica). Il processo comincerà il 13 dicembre prossimo, quando saranno sentiti gli agenti della polizia penitenziaria. Quattro detenuti hanno invece chiesto e ottenuto il rito abbreviato. La loro posizione è stata stralciata. Se ne occuperà un altro giudice. La protesta scoppiò di notte sulla scia delle rivolte nei penitenziari di tutta Italia messi a ferro e fuoco dal 7 al 9 marzo, durante la pandemia da Covid-19. Una rivolta scatenata principalmente dal blocco dei colloqui con i parenti e dal rischio del contagio.
Uno dei capi di imputazione racconta che quella notte, il comandante Pier Luigi Parentera, tre agenti scelti ed altri loro colleghi chiesero ai detenuti in rivolta di rientrare in sezione. Ma loro si misero ad inveire, cercarono lo scontro fisico, poi incitarono gli altri compagni di sezione ad usare violenza nei confronti delle divise dopo aver appiccato il fuoco a sgabelli, sedie e coperte. Un agente fu colpito con un pugno in faccia (sangue dal naso e labbro rotto), altri due vennero intossicati dal fumo (5 giorni di prognosi per entrambi). Il comandante Parentera fu minacciato con una telecamera rotta.
Un altro capo di imputazione quasi fotocopia racconta di plafoniere del corridoio distrutte, di detenuti che impedirono agli agenti di entrare in sezione, di un detenuto che si impossessò di un idrante allagando il piano e dirigendo il getto d’acqua contro il personale. Un altro capo di imputazione racconta di rivoltosi che sfondarono i vetri del box in uso agli operatori della polizia penitenziaria. E di agenti schiacciati tra le pareti e il cancello del cortile. Nella confusione, uno dei detenuti riuscì a sfilare il manganello in dotazione ad un agente, lo passò velocemente ad un altro detenuto che fu, però, bloccato. Cà del Ferro si evitò la tragedia grazie all’intervento di poliziotti, carabinieri, finanzieri, polizia locale e vigili del fuoco. E della polizia penitenziaria che sul fronte caldo mantenne i nervi saldi in una «situazione complicatissima», come spiegò la direttrice Rossella Padula.
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