L'ANALISI
12 Marzo 2025 - 05:25
Cinque generazioni: Ariano Civa con i suoi boys
PIEVE SAN GIACOMO - Gli anni d’oro dell’Oratorio Frassati, poi la serie A con la Pieve 010, fino alla coppa europea. Cos’è rimasto dell’hockey su pista a Pieve S. Giacomo e di quella esperienza unica e straordinaria? Lo racconta chi, più di tutti, ha seguito anno per anno, giorno per giorno, la nascita e la crescita della squadra e della società, ne è stato giocatore e poi storico allenatore e ancora oggi segue i ragazzi.
Ariano Civa, come va con l’hockey a Pieve San Giacomo?
«L’attività è ridotta rispetto al passato, con la serie B più una under 15 e una under 13. La passione però è rimasta la stessa, è sempre bello».
Ha coinvolto anche tutta la sua famiglia.
«L’hockey è la mia vita, mi ha anche aiutato certi momenti difficili. Mia moglie Mariagrazia sabato scorso era a Lodi a vedersi una gara importante, io ero con i ragazzi da un’altra parte. Ci sono anche i miei figli, Mattia e Manuele, che praticano hockey, tutti contagiati».
La storia di Civa coincide anche con l’hockey a Pieve San Giacomo.
«Sono nato a Pesaro nel 1960, sono arrivato qui a tre anni. Io da bambino non giocavo a calcio. Una sera nella piazzetta del paese ho provato dei pattini insieme ad alcuni amici, da allora non li ho più tolti».
Cioè?
«Cercavamo di imitare l’hockey su ghiaccio, ci si divertiva come si poteva. Per le mazze, si utilizzavano anche i manici di scopa».
Fino a quando entra in scena una figura importante.
«Don Enrico Ripari ci vide giocare, ci fece fare le stecche da un falegname, andammo anche in Brianza a procurarcene alcune. A metà anni ‘70 la svolta definitiva. Don Enrico ci parlò di un’area libera, sembrava fatta apposta ad ospitare il campo da hockey. Ma costerà molto, gli dicevamo. Non preoccupatevi, rispondeva, io ho lo zio d’America. E così è arrivata la pista, nuova, moderna, ci sembrava di volare. È ancora lì da vedere».
Da lì in avanti, dunque, strada in discesa.
«Ci iscriviamo al campionato Allievi nel ‘77, poi in Promozione. L’oratorio di Pieve era dedicato a Pier Giorgio Frassati, anche la nostra squadra prese lo stesso nome».
Dove giocavate?
«I primissimi passi alla palestra Odeon, a Cremona, dietro piazza Marconi. Poi, quando il don ci ha messo a disposizione il campo in cemento siamo stati qui a Pieve. Dalla metà degli anni ‘80 la Federazione richiedeva anche le tribunette, così siamo andati prima per un po’ a Zibello e infine a San Daniele, dove siamo ancora oggi».
Eravate un bel gruppo, una squadra unica in provincia.
«Siamo arrivati in A2, abbiamo vinto la Coppa Italia di B, siamo andati avanti fino alla fine degli anni ‘90. Avevo lavorato in una azienda di lampadari, poi ho fatto il trattorista. Di giorno lavoro, di sera allenamenti».
La figura di don Enrico salta sempre fuori. Quanto è stato importante?
«È stato la nostra anima, determinante. Io avevo 12 anni, lui era la nostra guida. Da parroco ha colto l’opportunità educativa per i ragazzi. Ha anche fatto i conti con alcune critiche, ma è sempre stato vicino a noi».
Che tipo di critiche?
«Diciamo che qualcuno pensava che dovesse giocare solo chi frequentava anche la chiesa. Lui invece diceva: no, qui si rispettano tutti e tutti devono seguire le regole, ma ognuno poi deve fare la propria strada. Era molto legato a noi ragazzi e ha dato molto anche al paese».
È rimasto a Pieve per 40 anni.
«Sapeva aggregare i ragazzi e le famiglie. Il consiglio della società sportiva - Oratorio Frassati - si riuniva ogni settimana, lui non era nel direttivo, si definiva eminenza grigia. Gli piaceva più fare che apparire, mettiamola così. Gli ho sempre riconosciuto grandi meriti».
Andavate d’accordo?
«Ho litigato tante volte con lui, ma mi ha sempre trattato bene, era come un secondo padre».
Che cosa è rimasto del suo insegnamento?
«Se siamo ancora qui, credo che qualcosa di buono abbia seminato. Ma soprattutto il suo esempio, quando c’erano momenti difficili diceva: tu comincia, poi vedrai che gli altri arrivano. Ecco, questo modo di fare e di pensare mi ha sempre accompagnato, una vera lezione di vita, cerco ancora adesso di trasmetterlo ai ragazzi».
A fine anni ‘90, lo stop. Poi, nel 2010, altra svolta.
«Mio cognato, Diego Trevisi, mi propose di avviare una polisportiva. E da lì è nata la Pieve 010. Sono rientrato da Suzzara, abbiamo fatto ripartire l’hockey. Siamo andati in molte scuole, ci siamo ritrovati. L’entusiasmo era lo stesso, avevamo solo qualche anno in più».
Si sente un po’ una rarità nel mondo sportivo cremonese?
«Non lo so, io come tutti gli altri del mio gruppo abbiamo vissuto una vera e propria epopea, fatta di soddisfazioni e tanta quotidianità. Siamo arrivati in serie A, in Europa addirittura, oggi l’attività è più contenuta, ma ci divertiamo ancora».
Che cosa le piace di questo sport in modo particolare?
«Quel senso di realizzazione personale, quando sei in pista. Non è solo una questione di pattini: è impegno, costanza, velocità, tecnica, dopo anni - ce ne vogliono una decina comoda - di lavoro riesci a stupirti di te stesso. È questa la bellezza dell’hockey».
Qual è stato il momento più bello di questi anni?
«Ce ne sono tanti, i Giochi della Gioventù, la serie A fino all’Europa. Ma se devo dirne uno, penso alla Coppa Italia vinta col Frassati, in A2».
Quando?
«Inizio anni ‘80, a Lodi, contro Novara. C’era tutto il Paese, Pieve S. Giacomo in trasferta. Incredibile».
A chi deve dire grazie?
«Prima di tutto a mia moglie che ha sopportato tutto questo per tutti questi anni. E poi a tutte le persone con cui ho collaborato e che mi sono state vicine. Da solo non avrei fatto nulla, tu hai bisogno degli altri e gli altri di te, bisogna farlo capire ai ragazzi: vale come una promozione. E questo è un altro insegnamento di don Enrico».
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