L'ANALISI
21 Dicembre 2023 - 05:25
Fra Alberto e bambini e ragazzi della scuola di musica Magnificat
CREMONA - Ha il volto sorridente e ha voluto intensamente che i suoi studenti della scuola di musica Magnificat, aperta a cristiani, musulmani ed ebrei, tornassero a suonare insieme, malgrado il feroce scontro in atto: Alberto Joan Pari è un giovane frate minore francescano della Custodia di Terra Santa che del dialogo con il mondo ebraico e musulmano ha fatto la sua missione quotidiana. Ex studente del liceo Aselli, fra Alberto è laureato in Pedagogia, con una tesi sui testi scolastici usati nelle scuole elementari durante il periodo fascista. Ed è tramite le sue parole che racconta non solo la sua vocazione e la propensione al dialogo, ma anche come questa inclinazione naturale, per fra Alberto Joan «un dono divino», resista e persista proprio in tempo di guerra. E a maggior ragione nell’imminenza della ricorrenza del Natale.
«Sono arrivato in Terra Santa nel 2007 e durante gli anni dell’università è maturata in me, pian piano, quella che si definisce comunemente vocazione».
Qual è l’esperienza che le ha cambiato la vita?
«È accaduta in un piccolo villaggio del sud della Francia, Taizé, dove ho vissuto come volontario e poi come giovane in ricerca vocazionale presso la comunità ecumenica dei monaci che gestiscono il villaggio. Lì ho capito di essere chiamato a una vita comune da consacrato, con un’apertura internazionale, ecumenica e di dialogo. Il Signore poi mi ha fatto incontrare i francescani della Terra Santa e sono arrivato a Gerusalemme senza ben sapere dove sarei finito».
Dai banchi del liceo Aselli alla città santa: l’avrebbe mai detto che il destino e la vocazione l’avrebbero portata lì?
«Sono nato e cresciuto in un piccolo paese della bassa bresciana, Pontevico, e ho studiato al liceo Aselli. Non abbiamo mai parlato di geopolitica e negli anni Novanta forse era possibile che qualche parrocchia organizzasse un pellegrinaggio in Terra Santa, ma non era popolare andare in Israele. L’unica conoscente che era andata in viaggio in quella terra era un’amica di famiglia e ricordo i suoi racconti sul Mar morto, ma niente di più. Sebbene cresciuto in una famiglia di cattolici praticanti, non abbiamo mai pensato alla Terra Santa come meta di un nostro viaggio o vacanza».
Come ricorda gli anni del liceo?
«Con grande gioia. È stata la fase della scoperta delle scienze, del metodo di studio, del cambiamento. E venendo da un piccolo paese, studiare con giovani della città è stato un arricchimento umano e culturale grandissimo. Ho anche un ricordo bellissimo della professionalità di tutti i docenti: con alcuni sono rimasto in contatto, altri, come la professoressa Pieresca e il senatore Rescaglio, due colonne dell’Aselli, ci hanno lasciato. E poi penso al caro don Gremizi. A volte mi sembra di aver conseguito la maturità ieri. E recenti, tanto sono vivi nella mia memoria, mi paiono anche i viaggi con gli amici del liceo durante le estati, la gita a Barcellona… Le più belle amicizie della mia vita sono legate all’Aselli e sono ancora vive e preziose».
Qual è la situazione attuale a Gerusalemme? E che riflesso ha nelle attività religiose e conventuali?
«Gerusalemme è relativamente pacifica. Certo, è parte di un Paese in guerra, ma la distruzione e le bombe sono lontane. Un po’ come se l’Italia fosse in guerra, io vivessi a Milano e il fulcro del conflitto fosse in Sicilia; anche se Israele è piccola e in effetti la striscia di Gaza dista solo 100 chilometri da Gerusalemme. Dal 7 ottobre, comunque, tutto è cambiato anche nelle nostre giornate. Basti pensare che i francescani della Terra Santa si occupano soprattutto di accogliere pellegrini da tutto il mondo e di gestire i gruppi che arrivano e che dall’inizio del conflitto, ovviamente, non ha più potuto arrivare nessun gruppo. Tutto è stato cancellato, i santuari sono praticamente deserti, gli alberghi tutti chiusi, le guide disoccupate. In città solo tre volte sono suonate le sirene anti missili, ma non ci sono stati danni. Il resto del Paese ha allarmi ogni giorno, quasi ogni ora. Io mi occupo di altre cose, quindi ho dovuto affrontare cambiamenti meno radicali: sono il segretario della Custodia di Terra Santa, un po’ come il cancelliere di una Diocesi, ma anche il direttore di un conservatorio di musica e il responsabile del dialogo interreligioso».
A quali limitazioni siete costretti? Come è cambiata la sua vita?
«Le prime settimane sono state le più difficili: il Paese era sotto shock e non era chiaro come ci si dovesse comportare. Poi sono arrivate le indicazioni dal governo e il Paese è stato diviso in zone, con colori a seconda della pericolosità degli attacchi di Hamas nel sud della striscia di Gaza e di Hezbollah nel nord, dal Libano. A seconda del colore della zona variavano le limitazioni, con scuole più o meno chiuse, trasporti più o meno possibili, spostamenti in auto e coprifuoco notturno. La mia vita sostanzialmente non è cambiata: ho però meno lavoro del solito, sia in ufficio che a scuola, essendo parzialmente chiusi e non avendo più l’agenda piena di appuntamenti con gruppi, vescovi e diplomatici».
Come sarà il suo Natale?
«Diverso, strano e serio. I capi delle Chiese dopo l’inizio della guerra hanno emesso un comunicato ufficiale nel quale chiedono a tutti i fedeli di rinunciare alle manifestazioni esterne di festa e invitano tutti alla sobrietà delle spese per i festeggiamenti, in modo da essere in solidarietà con le tante famiglie colpite dal conflitto e per poter aiutare con opere di carità tutti coloro che sono e saranno nell’emergenza. Quindi, ad esempio, non ci sono addobbi per le strade. Soprattutto a Betlemme: niente alberi di natale e nessuna accensione ufficiale, eventi che erano appuntamenti che raccoglievano tantissima gente di qualsiasi religione ed erano momenti di estrema gioia. Poi niente mercatini, niente concerti e feste. Sarà un Natale serio e profondamente religioso, probabilmente più simile a quello di 2023 anni fa».
I riti della natività si svolgeranno ugualmente?
«Betlemme si trova al di là del muro che separa Israele dai territori gestiti dall’Autorità Palestinese e per raggiungerla bisogna attraversare un confine, un posto di blocco gestito dall’esercito israeliano. Non sappiamo ancora se permetteranno a tutti di entrare e di uscire, ma immaginiamo che garantiranno l’accesso ai religiosi che organizzano e gestiscono logisticamente le liturgie nella basilica della Natività. Per i fedeli, non so: tutto si capirà a poche ore dal Natale».
Come sta operando la comunità religiosa per aiutare la popolazione?
«Da subito ci siamo mossi per organizzare una raccolta fondi per gestire l’emergenza. Adesso non ci è dato di poter far molto, ma sappiamo che quando tutto sarà finito ci sarà davvero estremo bisogno di aiuto. Tutte le famiglie in cui qualcuno lavora nel settore dei pellegrinaggi o del turismo sono disoccupati da mesi e lo saranno per altri, la Chiesa cercherà di garantire un minimo perché tutti abbiano una vita dignitosa. Intanto abbiamo messo a disposizione le nostre strutture alberghiere per i famigliari dei feriti in guerra o di chi è sfollato dalle zone vicino ai confini dove il conflitto è più violento, in particolare i cristiani immigrati che lavorano come badanti».
Lei è un frate minore francescano della Custodia di Terra Santa, che del dialogo con il mondo ebraico e musulmano ha fatto la sua missione quotidiana: la guerra come sta influendo sul dialogo fra le tre grandi religioni monoteiste?
«Io lavoro nell’ambito del dialogo interreligioso da circa dieci anni, con fatica, a piccoli passi, perché è una missione delicata e speciale. Dopo sabato 7 ottobre, tutto si è sgretolato. In un attimo. Il delicatissimo equilibrio che era stato costruito si è spezzato. Le amicizie vere sono rimaste: ci sentiamo, cerchiamo di organizzare opere di solidarietà comuni, ma percepiamo tutto attorno odio, disprezzo uno per l’altro, sospetto e sfiducia. Gli arabi hanno paura di frequentare le zone degli ebrei, i loro negozi, i mezzi pubblici; e così gli israeliani hanno paura di avere dipendenti arabi. Il Paese che conoscevamo prima del 7 ottobre non esiste più, non tornerà più. E tutti vivranno nel dubbio e nel timore per anni».
Che idea si è fatto di questa guerra? E dal suo osservatorio, vede una soluzione?
«Non sono un politico e non mi permetto di esprimere un’opinione, perché dopo 17 anni trascorsi in questo Paese ancora fatico a comprendere la complessità della sua realtà geo politica, sociale e culturale. So solo che dopo il 7 ottobre, questa è l’occasione per trovare una soluzione. O almeno provarci. Pensando alla problematica dei due popoli, dei loro confini e delle loro identità. Non credo si possa attendere oltre».
Quanto il dialogo interreligioso può essere una soluzione per trovare una via alla pace? E quanto invece rischia di essere annullato dalla guerra?
«Il rischio che tutto sia compromesso c’è, ma creare ponti e abbattere muri e barriere credo sia la via da intraprendere. Il dialogo può facilitare l’incontro, ma le problematiche legate ai diritti umani, alla giustizia e alla libertà devono arrivare a un livello giuridico e politico che il dialogo religioso difficilmente riesce a raggiungere».
Qualche tempo fa è uscita la notizia che era riuscito a mettere insieme una ensemble di studenti del conservatorio che lei dirige: come è andata quell’esperienza? La musica può unire?
«La scuola di musica Magnificat è aperta a tutti, da più di 25 anni. Aperta a cristiani, musulmani ed ebrei. I bambini e i giovani che studiano da noi crescono insieme per anni e fanno musica insieme, ma anche qui l’equilibrio è delicatissimo: la base è il rispetto delle diversità e l’accoglienza reciproca, ma non riusciamo a lasciar fuori dalle nostre aule le difficoltà che la popolazione vive. Tra noi ci sono israeliani, palestinesi e internazionali e cerchiamo di tenere lontana la politica. Ma non è sempre facile e piccoli incidenti sono capitati, soprattutto per messaggi e opinioni espresse da singoli in chat di gruppo delle classi di strumento».
Che cosa significa dirigere un conservatorio in tempo di guerra con studenti che appartengono a diverse confessioni religiose?
«Significa camminare sempre sulle uova, stare attenti ad ogni parola detta o scritta. Significa fare chiarezza, non rimanere nel dubbio ed essere guida. Dopo la prima settimana di guerra, in cui abbiamo avuto lezioni non in presenza, abbiamo subito riaperto perché volevamo che studenti e docenti avessero un po’ di bellezza e di normalità nelle loro vite che in un attimo erano stato sconvolte da paura e da dolore. Ho inviato un messaggio chiaro ai docenti» .
Quale?
«Ho chiesto di non parlare di politica e di evitare di affrontare il tema della guerra, ma di donare del tempo sereno a tutti durante le lezioni. Non è sempre facile, ma ci stiamo provando con tanto entusiasmo».
Si sarebbe mai immaginato di vivere una situazione così?
«No, mai nella vita ho avuto esperienza di un conflitto bellico, nemmeno i miei genitori. Siamo tutti nati e cresciuti in un Paese senza guerra e senza nemici. Arrivato qui sapevo che avrei vissuto sfide grandi e piccole, negli anni ho assistito ad una escalation di violenza da entrambe le parti, ma i disagi si risolvevano dopo pochi giorni. Quello che stiamo vivendo è enormemente più grave e non credo abbiamo ancora visto il peggio purtroppo».
Gli ebrei e i musulmani che incontra che idea hanno del conflitto?
«Difficile dire cosa pensano. Di sicuro, tutti hanno o paura di confrontarsi o non riescono ancora a parlare di quel che è successo e di come si sta sviluppando il conflitto. Sono spaventati, arrabbiati, sfiduciati perché il Paese che doveva proteggerli e garantire una stabilità ha fallito. Ho visto però da parte di tutti, sia musulmani che ebrei, una grande solidarietà nel momento della prova».
Si arriverà a un accordo?
«Sono certo che una soluzione si debba trovare. E sono altrettanto sicuro che sarà un processo lungo e doloroso. Ma ipotizzare ora quale sarà è quasi impossibile, almeno per me».
E alla pace?
«Pace è una parola immensa. Se intendiamo il termine nel senso della cessazione del conflitto, nello specifico di un cessate il fuoco permanente, credo sia realizzabile, ma non subito. Se invece pensiamo a un Paese senza nemici, dove tutti vivono insieme in sintonia, allora credo che dovremo attendere a lungo».
Qual è la sua preghiera per il Natale 2023?
«Come cristiano credente, uomo di fede che ha lasciato tutto per essere al servizio di Dio e degli uomini, la mia preghiera è che il Principe della Pace, di cui festeggiamo il primo avvento nel mondo, possa aiutare questi popoli a cambiare il cuore, se non ad essere fratelli e amici, almeno a rispettarsi e a cercare insieme una soluzione realmente duratura».
Buon Natale. Dalla Terra Santa in guerra.
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