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'A pala e piccone', ma Indiana Jones era un’altra cosa...

Le delusioni dell’ex archeologo per un lavoro da amare, ma dal quale fuggire. Fallire e liberarsi: «Smetti di accanirti coi morti e vai a cercare pace tra i vivi»

Paolo Gualandris

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pgualandris@laprovinciacr.it

14 Giugno 2023 - 05:25

CREMONA - Comico e tragico come lo è l’esistenza di chi insegue un sogno senza arrivare mai a catturarlo per davvero; ironico, spiritoso e amaro viaggio tra le cose della vita, dello studio e del mestiere. Che poi, a ben vedere, è una delle professioni che tutti abbiamo sognato di fare quando da piccoli ci chiedevano ‘che cosa vuoi fare da grande?’: l’archeologo era l’immancabile risposta.

È un po’ tutto questo ‘A pala e piccone’, il romanzo di Vincenzo A. Scalfari (dove A sta per Antonio) oggi 44enne professore di storia e filosofia a Modena, ma che a 17 anni aveva abbandonato la sua Calabria per studiare a Perugia e successivamente per anni e ricercatore. Un romanzo che è come un flusso di pensieri, con la punteggiatura ridotta al minimo, che ne aumenta l’efficacia e fa penetrare il lettore direttamente nel cuore e nell’anima del narratore. Scalfari ne parla con Paolo Gualandris nella videointervista per la rubrica ‘Tre minuti un libro’ online da oggi sul sito www.laprovinciacr.it.

Tornando bambini, consideravamo fare l’archeologo sinonimo di avventura, di grandi scoperte, di successo planetario. Insomma Indiana Jones. Ci si può innamorare di questo mestiere, ma come racconta l’autore, «l’amore deve essere inteso non solo come innamoramento, perché c’è anche una figura femminile che emerge di tanto in tanto che comunque motiva e determina gli spostamenti del protagonista. C’è anche l’archeologia come passione, che però conduce pittorescamente alla caduta dell’illusione. Il protagonista si destruttura via via, arrivando a perdere l’identità: la passione tanto inseguita diventa l’ennesima schiavitù. Tutto questo, voglio dirlo, in un libro dove però si ride molto oltre a riflettere molto».


Puoi innamorarti dell’archeologia se incontri un Maestro come Filippo Coarelli grandissimo storico romano, «che è stato effettivamente il mio insegnante all’università. Questa è una coincidenza biografica, perché io ero archeologo, quindi racconto anche cose che in qualche modo sono successe. Con lui ho fatto il dottorato di ricerca, ci ho lavorato tantissimi anni e non posso dire niente di lui che non sia positivo, perché davvero il mio affetto per lui è sempre stato sincero. Ci sono maestri che si seguono perché ci si aspetta qualcosa da loro, anche in termini di riconoscenza e di carriera. Meno male che io in questa trappola non sono caduto, ho sempre studiato per reale curiosità di sapere e quindi per me lui è effettivamente il maggiore conoscitore della storia romana e dell’archeologia. Ho sempre lavorato bene con lui, che è una delle poche figure che si salvano: emerge per la sua grandezza umana e di studioso puro, cioè senza la capacità di legarsi alle istituzioni. Per diventare il numero uno è mancato proprio nella capacità politica e diplomatica di tessere buoni rapporti con le istituzioni in modo tale da ottenere vantaggi. Lui non l’ha mai fatto perché è una persona per bene, perché non è un uomo banale ma un grande».

Insomma, un maestro di quelli che non smetteresti mai di ascoltare, che si seguono ciecamente di scavo in scavo, sotto il sole rovente, a pala e piccone, senza mai soldi o quasi; e la sera sono birre su birre, fiumi di discorsi in un miscuglio di lingue, fino a non poterne più. Mentre la tua lei fugge con il primo irlandese che passa, proprio quando torna a scavare a Tiermes, dove era nato il vostro amore, in un deserto di avvoltoi. E tu la insegui in Spagna, oppure insegui il tuo desiderio di sentirti ovunque straniero con la scusa di inseguire lei. Intanto ti tocca non avere più vent’anni, e la stanzetta nell’appartamento condiviso diventa pesante come il pensiero di scavare e scavare in un cimitero infinito, piccola tomba anche tu. Allora smetti di accanirti sui morti e vai a cercare pace tra i vivi, per sempre rimpiangendo i vent’anni che non avrai mai più.

Anni fatti anche «di grandi scopate riuscite o fallite, grandi bevute perché, come dice il protagonista, ‘riuscivamo a bere anche senza divertirci’. C’è poi l’accenno al discorso della manovalanza degli archeologi, che avendo studiato dovrebbero essere non dico un élite culturale, ma andrebbe loro riconosciuto il fatto di avere dalla loro parte un sapere. Ma, appunto, siccome sapere è inutile, allora non resta anche a loro che farne, con descrizioni straordinarie come quelle dei romanzieri naturalisti di fine Ottocento, personaggi periferici, bandiere delle periferie londinesi che non hanno altro da fare dopo 14 ore di fabbrica, con straordinari pagati il nulla, prima di tornare a casa passare in birreria a bere petrolio per poi tornare a casa a picchiare le mogli, o cose del genere».


Parte così la destrutturazione emotiva e lavorativa del protagonista, con la storia di una quantità di fallimenti che però sono visti come liberazione: «Non ne poteva veramente più. Gliene ho fatte passare di cotte e di crude, fino a che di dice: ‘smetti di accanirti coi morti e vai a cercare pace tra i vivi’».

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