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'Una minima infelicità', quando la madre è l’irraggiungibile

L’attesa di una figlia di essere finalmente ‘vista’, il folgorante esordio di un’autrice che non si sente «abbastanza grande per parlare di felicità»

Paolo Gualandris

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pgualandris@laprovinciacr.it

24 Maggio 2023 - 05:25

CREMONA - Minima è l’infelicità (si nota già dal titolo), minime le proporzioni della protagonista - Annetta, mai cresciuta nel corpo -, minima la quantità di amore che riesce ad avere da sua madre. Massima, invece, è la felicità dell’autrice, Carmen Verde, che con il suo romanzo d’esordio, ‘Minima infelicità’ appunto, conquista un posto nella dozzina dei finalisti del Premio Strega. È la storia di una vita vissuta all’ombra della bellissima, anche se decisamente originale madre, troppo presa da se stessa e dai propri fantasmi per occuparsi della figlia, la cui esistenza scorre, in pratica, senza lasciare traccia nel mondo. L’autrice ne parla con Paolo Gualandris nella videorubrica ‘Tre minuti un libro’ online da oggi sul sito www.laprovinciacr.ir.

Un libro d’attesa e d’amore, si potrebbe sintetizzare. Risponde: «Penso davvero di aver scritto un libro d’amore, quello incantato di una figlia per sua madre. Nel romanzo è la piccola Annetta che racconta la sua vita all’ombra di una madre gigantesca, come possono esserlo solo le madri irraggiungibili e bellissime, che Annetta prova a inseguire, a emulare, ma con il suo corpo di eterna bambina coglie soltanto ciò che le manca rispetto a sua madre. Rossana Rossanda ha detto una cosa bellissima sulla felicità: ‘è avere avuto madri felici’. E allora mi sono detta che forse l’infelicità che provo a raccontare già dal titolo è per Annetta non avere avuto una madre felice, ma al contrario profondamente infelice da cui lei aspetterà sempre uno sguardo. Ecco perché è anche una storia di attesa». 

La protagonista racconta la propria vita all’ombra della madre, Sofia Vivier. Bella, inquieta, elegante, si vergogna del corpo della figlia perché è scandalosamente minuto. Chiusa nel sacrario della sua casa, Annetta fugge la rozzezza del mondo di fuori, rispetto al quale si sente inadeguata. A sua insaputa, però, il declino lavora in segreto. È l’arrivo di Clara Bigi, una domestica crudele, capace di imporle regole rigide e insensate, a introdurre il primo elemento di discontinuità nella vita familiare. Il padre, Antonio Baldini, ricco commerciante di tessuti, cede a quella donna il controllo della sua vita domestica. Clara Bigi diventa così il guardiano di Annetta, arrivando a sorvegliarne anche le letture. La morte improvvisa del padre è per Annetta l’approdo brusco all’età adulta.

Dimentica di sé, decide di rivolgere le sue cure soltanto alla madre, fino ad accudirne la bellezza sfiorita. Allenata dal suo stesso corpo alla rinuncia, coltiva con ostinazione il suo istinto alla diminuzione. Il suo è un amore che si rinnova anche quando la mamma non c’è più e che trova la sua esteriorizzazione davanti a una fotografia, che rappresenta plasticamente la minima infelicità del titolo perché minime  sono le proporzioni del suo corpo di fronte alla bellezza devastante, fuori e dentro, della madre. Tutto parte da una fotografia, dunque. «Sì, e da un piccolo segreto che si nasconde già nel cognome di sua madre, che lei fin dall’inizio chiama Sofia Vivier, indicando sempre anche il cognome, detto come un soffio, come un’invocazione. Un cognome che in sé l’anagramma rivive».

E in effetti questa madre rivive sempre e la sua memoria attraversa l’intero romanzo. La storia è raccontata in modo classico, la protagonista racconta la propria vita all’indietro e quando il racconto inizia sua madre non c’è più. Eppure rivive continuamente: sia invocandola sia riguardando queste fotografie. «In fondo questo è il compito delle fotografie: fare rivivere un momento passato. Ma in un modo ingannevole, perché in realtà rappresentano un finto presente, perché è lì davanti ai nostri occhi ma del quale noi conosciamo già il futuro. In quel momento, però, finalmente, la madre guarderà lei, seppure da un fotografia».

Minima è anche la narrazione, dal dettaglio al generale. «Mi sono interrogata su come io potessi scrivere di questa infelicità partendo dall’idea che non volevo descriverla, ma proprio scriverla e mi son convinta che l’infelicità è una mescolanza di cose, un labirinto dai mille ingressi. Però ce n’è uno che trovo quanto mai vero ed è che nell’infelicità noi facciamo esperienza. Attenzione però, non del sentimento nel suo complesso, ma sempre di piccole cose. E allora ho provato a cercare questi dettagli, queste situazioni che potevano essere incrinate di infelicità per il personaggio e cercando da lì di ricostruire il generale che come insegna Flannery O Connor, è il mestiere dello scrittore: iniziare dal particolare e lasciare che esso evochi il generale, e addirittura possa essere un indizio di quello che manca e lasciare il generale sempre nel mistero, perché in fondo l’infelicità è anche un mistero». Perché descrivere la minima infelicità e non la minima felicità? «Perché della felicità forse sono meno pratica. Sempre Flannery O Connor, dice che la felicità è uno stato di grazia e che compete ai grandi e forse io non mi sento sufficientemente grande».

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