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La vita in perenne attesa degli eventi

Cronache, amori, tradimenti e amicizie tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945

Paolo Gualandris

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pgualandris@laprovinciacr.it

08 Ottobre 2025 - 05:30

CREMONA - «L’amicizia è per la vita, nemmeno una guerra può ucciderla». Ha allo stesso tempo torto e ragione Aristide, uno dei protagonisti del romanzo di Pier Vittorio Buffa, Il pane non può aspettare, la storia di un paese tra l’8 settembre 1943, il giorno dell’armistizio, e il 25 aprile 1945. Seconda, efficacissima, puntata di un affresco corale iniziato con La casa dell’uva fragola, ambientato durante la prima guerra mondiale. Questo luogo oggi si chiama Castello Cabiaglio, allora era solo Cabiaglio e la sua è la storia di tutti i microcosmi che hanno vissuto quel periodo tra ansia, paura, attesa e quindi uno spaccato dell’Italia di quel momento, anche emotivamente parlando, non tanto sul fronte della guerra, ma quanto su quello della resilienza ai fatti della Storia. Un paese «in perenne attesa degli eventi». Buffa ne parla nella videointervista online da oggi sul sito.

LA BANDA DEL FISCHIO

«Cabiaglio è un microcosmo significativo di quel che successe soprattutto nel Nord Italia, in particolare nella fascia a ridosso del confine svizzero, con la guerra civile che partì l’8 settembre. È un modo per raccontare grandi fatti storici attraverso gli occhi di chi li ha vissuti e li ha subiti. Persone normali, paesani, amici che si trovano da una parte e dall’altra e rischiano anche di spararsi addosso». Gli amici sono quelli della banda del fischio, così autodefiniti per via del segnale stabilito tra di loro per incontrarsi. L’estate dei ragazzi di Cabiaglio, borgo alle porte di Varese, è scandita da una serie di rituali. Quello del pane con l’uva la prima domenica di settembre, che chiude la stagione dei bagni nei torrenti, della polenta alla cappella degli asini e delle corse in bicicletta, è il loro preferito. A impastare quel pane è Aristide, che ha preso il posto del padre, ucciso di botte e di dolore dai fascisti.

LA GUERRA È FINITA, FORSE

Appartiene a un gruppo di sette ragazzi di età diverse, ma in un paese di poche anime le differenze non contano, conta solo stare insieme. Quella domenica del settembre 1938, spensierata e leggera, sarà l’ultima che li vedrà tutti ancora insieme, dalla stessa parte. Quando, cinque anni dopo, il maresciallo Badoglio annuncia l’armistizio, le strade di Cabiaglio si riempiono di gente, le mani a conca intorno alla bocca per gridare al mondo e a sé stessi che la guerra è finita. Aristide e la madre Innocenta si guardano negli occhi, senza bisogno di dirsi il sollievo: allora lui non dovrà più partire soldato, potrà restare a fare il pane. Ma il pensiero corre agli amici di un tempo ora lontani, a chi ha sposato il regime e a chi lo avversa, a chi scrive lunghe lettere dalla Grecia e a chi è appena ripartito per il fronte.

UN PAESE DISORIENTATO

I giorni dopo l’8 settembre saranno cruciali anche per i sette ragazzi di Cabiaglio e per le loro famiglie, ore in cui decidere se e contro chi continuare la guerra, in cui essere pronti a morire senza aver iniziato a vivere davvero, in cui donne e uomini, partigiani, repubblichini, prigionieri e disertori si troveranno faccia a faccia con un fucile in mano e dovranno scegliere chi e che cosa salvare. Tra i sette amici, qualcuno si è fatto repubblichino e ammette con un altro schierato dalla parte opposta «che sì, potrei anche spararti». E questa è la negazione della certezza di Aristide espressa all’inizio. Ma poi quello stesso personaggio fa cose che salveranno più d’uno dei suoi amici. E qui invece c’è la conferma che il patto tra amici può essere tenuto in piedi malgrado tutto. In un paese disorientato che vive in perenne attesa degli eventi vivono e agiscono il prete, la spia, i partigiani, i fascisti, il postino e soprattutto le donne in perenne attesa di notizie di mariti e figli in guerra o alla macchia. Questo romanzo si basa su fatti storici reali, su vite davvero vissute. Come quella di Innocenta, la panettiera che quando il figlio viene portato via dai fascisti corre a prenderne il posto al forno «perché il pane non può aspettare».

MEMORIE DI FAMIGLIA

Spiega Buffa: «Cabiaglio ha poco più di 500 abitanti, si trova nelle Prealpi in provincia di Varese, tra il Lago Maggiore e la Svizzera. Buona parte dei personaggi sono reali, così come lo sono i fatti. Un romanzo come questo non può che prevedere un buon lavoro di ricerca. Ma non bastano libri, giornali, documenti per ricreare atmosfere di più di ottant’anni fa. Bisogna parlare con chi c’era, con chi, bambino, ha vissuto quelle atmosfere. Quando ho cominciato a lavorare al romanzo, ho messo ordine nelle storie che si erano accumulate dentro di me, rivisto vecchi appunti, cercato nuove testimonianze in memorie o carte lasciate da chi c’era, stimolato ricordi familiari. Così, pian piano, è emersa la forza di Innocenta, ho capito l’importanza del ruolo di Ernestino, primo sindaco del dopoguerra, nel proteggere e mettere in salvo, nel mantenere i rapporti con i capi partigiani. Di tutto questo, come per “La Casa dell’uva fragola”, fa parte anche la mia memoria familiare. Parte della mia famiglia era sfollata lì, proprio nella casa dell’uva fragola, e io sono cresciuto sentendo parlare del giorno in cui i tedeschi bombardarono la montagna o di quello in cui le camicie nere si portarono via i ragazzi del paese. O di quando mio padre venne fatto prigioniero dai tedeschi. Cabiaglio e i suoi abitanti potrebbero avere nomi diversi ed essere più a sud, più a est, più a ovest, ma paure, speranze, lutti, gioie sarebbero ovunque simili, molto simili se non addirittura identici».

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