L'ANALISI
18 Settembre 2024 - 05:20
CREMONA - «Un senatore aveva due provvedimenti di legge da presentare in commissione. La prima relazione, letta davanti a colleghi annoiatissimi, è stata seguita da una breve discussione e dal voto. Nel passare alla seconda, si è sbagliato ricominciando a leggere la stessa relazione, senza rendersi conto lui stesso che si stava ripetendo. E non è un caso isolato». Tutto molto frustrante per per chi ha voglia di ascoltare, studiare e prepararsi. «Decisamente, tanto è vero che sono andato via molto presto».
A parlare è il cremonese Carlo Cottarelli, uno dei nomi più più noti in Italia relativamente alle questioni dell’economia e della politica. L’episodio è narrato nel suo nuovo libro ‘Dentro il Palazzo, cosa accade davvero nelle stanze del potere’, diario-saggio della sua incursione nel mondo della politica. Come un disco in vinile, ha il lato ‘A’, quello in cui racconta degli otto mesi in Senato, e il ‘B’, con il diario dei quattro giorni da quasi presidente del consiglio. Un’esperienza che ripercorre con Paolo Gualandris nella videointervista ‘Tre minuti un libro’.
Cottarelli esamina con ironia e attraverso numerosi aneddoti personali lo stato della politica italiana. Ne registra storture, inefficienze e potenzialità perdute. Un mondo che lo ha corteggiato spesso. Ricorda: «Ricevetti una telefonata da parte di un tizio. Era Giuseppe Conte, l’avvocato. Ma il suo nome non mi diceva nulla». Portava un messaggio di Luigi Di Maio. «Mi sembrava non arrivasse mai al punto, sinceramente non ricordo nulla di quanto mi disse. Non fui particolarmente colpito se non per la sua prolissità», spiega Cottarelli. Gli offrì il posto di ministro dell’Economia. «No grazie».
Ci ha provato pure Silvio Berlusconi, che addirittura annunciò in tv di averlo arruolato. Dovette smentire il Cavaliere. Commissario straordinario per la spending review col governo Letta, era diventato noto al grande pubblico come ‘Carlo mani di forbice’, in seguito è stato presidente del consiglio incaricato per quattro infuocatissimi giorni, diventando poi ‘riserva del Paese’ e venendo premiato dal presidente Sergio Mattarella («La Repubblica è in debito con lei») con l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce.
Infine si è trasformato in peone - così si definiscono i ‘soldati semplici della politica’ - con l’elezione al Senato, peraltro rinunciando al seggio dopo otto mesi nei quali, assicura, «ho visto da vicino come funziona il mondo politico. E sono le cose che racconto senza nascondere episodi in cui si ride per non piangere, in quanto ci sono implicazioni anche per l’attuale situazione politica, in particolare per la questione della riforma costituzionale del premierato che sta avanzando in questi mesi. Non la considero una buona idea anche sulla base di ciò che ho visto. Un ridimensionamento del Parlamento che è già nei fatti per l’uso troppo frequente di decreti legge, di voti di fiducia che interrompono ogni discussione e dall’uso troppo elastico delle cosiddette leggi delega in cui il Parlamento affida al governo il compito di scrivere le leggi. A questo aggiungiamo il fatto che abbiamo un Parlamento che, in assenza di preferenze, di fatto è nominato dai capi di partito. E di conseguenza finisci in alto nella scheda elettorale se sei fedele al capo, se sei disposto a prendere ordini. Il Parlamento è pieno di gente che esegue piuttosto che pensare, come dovrebbe fare in base alla Costituzione, che si è lì non per rappresentare il tuo partito ma la Nazione».
Cottarelli non ci sta a fare lo yes-man, e spiega il secondo motivo per cui ha lasciato il Palazzo: «Quando mi sono candidato, i principi del Pd erano rappresentati dal documento del 2008 che aveva una parte consistente di valori liberaldemocratici mentre quelli approvati nel gennaio del 2023 erano completamente diversi. Avrei potuto cambiare gruppo parlamentare, ma non mi sembrava giusto perché ero stato eletto nel plurinominale. Lo fossi stato nell’uninominale e quindi la gente avrebbe votato direttamente me forse sarebbe stato diverso, ma nell’uninominale a Cremona ho perso di 25 punti contro Daniela Santanchè. Battuto 8-0 in casa mia. Il mio seggio, dunque, apparteneva al Pd».
Veniamo alla chiamata del Quirinale. Ore emotivamente coinvolgenti e fortemente provanti quelle dell’incarico a formare un governo. Ore iniziate mentre si stava preparando lenticchie dopo aver corretto i compiti dei suoi studenti. Il cellulare squilla: 06 e cinque numeri. È la segreteria del presidente Mattarella. «Ho avuto il dubbio che fosse La Zanzara, e penso: ‘Faccio la figura del cretino’». Era davvero Mattarella che lo incaricava di formare un Governo tecnico. «Metto giù il telefono. Mi batte il cuore, chiamo mia moglie a Washington. Silenzio, poi mi dice. ‘ Vacanze rovinate. Ci si aspetta. Siamo orgogliosi di te’. L’obiettivo della mia chiamata era portare il Paese ad elezioni nel caso non ci fosse stata una possibilità di accordo politico tra i partiti. Sarebbe stato un governo a termine e nessuno di noi si sarebbe poi candidato».
Il problema era sorto perché Lega e 5 Stelle e Lega avevano l’accordo per formare un governo, ma insistevano per avere Paolo Savona, considerato una bandiera dei no euro, come ministro dell’Economia. «Mattarella non poteva accettare questa scelta. Alla fine, però, si è riusciti a trovare un compromesso e io sono andato a casa perché l’obiettivo era stato raggiunto. Racconto questa storia perché anche qui c’è un’implicazione in termini di premierato, il presidente del consiglio eletto direttamente dal popolo avrebbe una posizione prevalente anche rispetto al Presidente della Repubblica. Troppo potere nelle mani di un’unica persona, nei confronti del presidente Repubblica e del Parlamento mi preoccupano perché normalmente quando ha troppo potere, una persona si monta la testa e finisce per fare delle sciocchezze. In democrazia è importante avere pesi e contrappesi».
Tra l’altro, sempre rimanendo al caso Savona, i gialloverdi dopo aver puntato i piedi sul nome, sono riusciti a infilarlo nel governo con altro incarico, ma pochi mesi dopo si è dimesso per andare alla Consob. «Proprio per quello dico che la vera discussione non era sul nome, ma sul rapporto tra il Presidente della Repubblica e chi aveva vinto le elezioni: i Cinque Stelle primo partito, la Lega il terzo. È importante ricordare che secondo La Costituzione non è che se la spunti alle elezioni sei il dittatore per 5 anni».
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