L'ANALISI
06 Luglio 2022 - 05:25
CREMONA - «A volte, credo proprio a causa delle teorie paterne, mi scopro a immaginare gli stati d’animo dei libri. Se hanno una vita propria, mi dico, allora avranno anche dei pensieri. Non ne ho mai parlato con nessuno di questa fantasia, nemmeno con mio padre, temendo di essere scambiato per un mezzo matto. Fantastico così dei loro problemi, dei loro sogni, delle loro paure. Per prima cosa vorranno essere amati, come tutti gli esseri umani, e quindi letti e capiti da chi li ha acquistati. E poi rispettati. Magari temono di finire in mani sbagliate, in posti sbagliati. Di non essere ascoltati. Di essere dimenticati in una casa di campagna all’umido, o esposti a una luce troppo forte. Può un libro provare gelosia? E di chi, di un suo simile che ha avuto più successo di un lettore che magari lo ha abbandonato per un’altra lettura? Forse, mi dico, loro possono non avere paura di morire. Pensieri che mi scattarono anche quel giorno in ospedale».
Quel giorno in ospedale c’erano Luigi Contu, oggi direttore dell’Ansa, e suo padre Ignazio, giornalista e in passato portavoce di Amintore Fanfani. La biblioteca alla quale si fa riferimento è quella, sterminata, di famiglia, la cui raccolta venne iniziata dal capostipite nonno Rafaele (con una «f» sola, alla spagnola), sardo di Tortolì, appassionato di scienza e poesia, dirigente del Ministero della Guerra fascista, intellettuale amico di Giuseppe Ungaretti e Paul Valery.
Una storia di una famiglia (e contemporaneamente una sorta di manuale di letteratura e Storia patria) raccontata attraverso i suoi libri è il lavoro che oggi Luigi Contu porta in libreria «I libri si sentono soli», titolo che ben riassume l’amore sterminato per la cultura e per i libri di tre generazioni. Il direttore dell’Ansa ne parla nella videointervista per la rubrica «Tre minuti un libro» curata da Paolo Gualandris, online da oggi sul sito www.laprovinciacr.it.
Il recupero della memoria di casa, che è nello stesso tempo un percorso collettivo di storia nazionale, riserva tante sorprese, prima fra tutte un inedito di Giuseppe Ungaretti. Da quegli scaffali ricolmi di riviste, tomi e appunti parte una grande avventura a ritroso, un lungo viaggio fino ai giorni nostri che Contu ha raccontato per fissare la sua navigazione culturale, tra inediti di Ungaretti e volumi del Novecento rari. Sfuggito alla bibliografia più accreditata del poeta, l’inedito è composto da tre strofe vergate nel 1943, corrette con la matita rossa dall’autore. Un testo scomparso e solo ora ritrovato, grazie alla ricostruzione di Contu.
«Un oceano di carta», il viaggio che il giornalista compie. La biblioteca di famiglia è un prezioso patrimonio che, improvvisamente, passa di mano alla morte del padre e di cui si ritrova responsabile, assieme al fratello: migliaia di volumi raccolti in primis dal nonno Rafaele, appassionato di scienza e poesia. Ufficiale valoroso in guerra, fu raffinato interlocutore dell’establishment culturale dell’epoca. Traduttore di Paul Valery, estimatore ricambiato di Tommaso Marinetti, animatore dell’esclusiva rivista Novissima. Ecco uscire dalla sua biblioteca i manoscritti originali di Corrado Alvaro, le confessioni di Ungaretti che non sopporta il collega Vincenzo Cardarelli («Non vorrei più averlo tra i piedi»), testi e quadri futuristi. Da una vecchia cassapanca nuziale riemerge anche un’edizione preziosa dell’Ulisse di Joyce, testo-faro del vecchio Contu. Il nipote Luigi scheda, cataloga, annota, cerca di ricostruire. E così il suo libro va naturalmente oltre quell’iniziale viaggio di carta, prosegue fino ai giorni nostri. Racconta gli anni del boom economico, attraverso Pierpaolo Pasolini, Umberto Eco e Italo Calvino, neo acquisti nella storica biblioteca di famiglia.
Evoca le esperienze più recenti del giornalista, la stagione delle stragi, il rapimento Moro affidato alla scrittura di Leonardo Sciascia, che si interroga sul rapporto tra prigioniero e rapitori, i ricordi di Gemma Calabresi raccolti ora nell’ultima fatica letteraria. Flash professionali: il caso Tortora in cui Contu rivela un incontro con il presentatore, prima dell’arresto, che gli regalò un libro di Aleksandr Solgenitsin.
Tutto, dunque, iniziò quel giorno in ospedale. «Andai a salutare mio padre perché doveva essere operato. Un intervento di routine purtroppo andato male. Mentre lo salutavo, ha cominciato a parlarmi della nostra storia, della sua storia nella famiglia e dei libri della famiglia. Prese carta e penna e scrisse un appunto sui libri sulla biblioteca, sul nonno, su quello che era stato il loro percorso. Tant’è che io rimasi un po’ interdetto: ma papà perché mi stai scrivendo adesso questo? ‘Preferisco che le cose siano tutte chiare’ rispose. Solo poi ho capito che evidentemente lui era preoccupato e purtroppo i fatti gli hanno dato ragione. Nell’appunto raccontava la destinazione dei libri, da dove erano venuti, quali erano quelli più preziosi che cosa c’era sulla Sardegna, sulla storia d’Italia, sulla guerra mondiale: una sorta di mappa di questa grande biblioteca che poi dopo un po’ di anni, all’improvviso, mi sono dovuto mi sono trovato nella condizione di dover smobilitare per forza perché era stata venduta la casa che ospitava gli oltre 15 mila libri».
Un rapporto quasi carnale con quei testi, che ha trasmesso al figlio Luigi: «È un po’ bizzarra, lo ammetto, la mia premessa. E pensare che a me sembra già sembrava bizzarro mio padre che ci diceva ‘guardate che i libri hanno bisogno di essere coccolati’. Poi lui, veramente, a casa li spostava, li prendeva, li rimetteva a posto. È diventata una specie di mania anche per me. A questo punto io ho pensato di trasmetterla ai miei figli e a chi vorrà leggere il libro».
Tre generazioni di Contu: il nonno Rafaele, uomo di destra avendo sostenuto in maniera molto convinta il regime fascista, il padre Ignazio liberale e Luigi che ha frequentato casa Berlinguer. «Ammetto che c’è un aspetto che mi ha lasciato un po’ interdetto man mano che scoprivo i pensieri di mio nonno. Era l’uomo che ha tradotto Paul Valery, un intellettuale davvero raffinato. Una delle domande che mi è venuta mentre catalogavo è stata: come è possibile che una persona così raffinata intellettualmente e preparata abbia aderito al fascismo in maniera così convinta? Perché, chiaramente, il regime aveva molti aspetti inaccettabili. Forse la spiegazione sta nel fatto che in Sardegna il movimento socialista era molto presente e, come si sa, il fascismo trova anche lì le sue radici. Mio padre, invece, ha sposato la democrazia».
«E poi ci sono io, con Enrico Berlinguer - prosegue Contu-. Il nostro è stato un incontro casuale, nel senso che ero molto amico del figlio Marco, eravamo compagni di scuola e io quindi frequentavo casa loro, studiavamo insieme e qualche volta lui si è fermato a parlare con noi, spiegarci la Storia. Un giorno, lo racconto nel libro, interruppe la partita di calcetto che stavano facendo sotto casa chiedendoci di poter giocare anche lui. Rimanemmo molto perplessi, e ancor di più la sua scorta, molto preoccupata che qualcuno entrasse a gamba tesa su di lui. Quando poi ci siamo trasferiti a casa, ha visto che eravamo sui libri chiedendoci su cosa ci stessimo concentrando. Io feci una battuta veramente infelice dicendo ‘ma che pizza: dobbiamo studiare la rivoluzione francese’. Lui ci fulminò con uno sguardo: ‘Ma che pizza! State parlando di un grandissimo fatto per la storia dell’umanità’. E cominciò una lunga lezione sulla rivoluzione francese che ci ha rapito. Almeno così è successo a me. Il caso ha voluto che il giorno dopo fossi interrogato proprio sulla rivoluzione francese e ho fatto un figurone ripetendo la lezione di Berlinguer. Presi 8».
Torniamo al nonno intellettuale e alla biblioteca, che ha svelato un autentico tesoro. «Rafaele, avendo dopo la prima guerra mondiale studiato al Politecnico si è innamorato della fisica e di Albert Einstein. È stato il primo a tradurre le sue opere in una versione didattica per l’Italia. Poi ha conosciuto Ungaretti, il quale ha capito che mio nonno aveva un’idea molto particolare della matematica e della poesia, della scienza e della letteratura, e cioè che fossero tutte parti di un unico insieme, che si sposavano. Ungaretti, come risulta da alcune lettere, ne rimase colpito e gli consigliò di tradurre Valery, ‘perché la pensa come te’. Ne nacque una grande amicizia tra i tre e, in particolare tra mio nonno e Ungaretti. Nel libro racconto che quest’ultimo scrisse la poesia L’Inno, che mandò a Rafaele, il quale la stampò, come si usava all’epoca, in cinquanta copie per gli amici. La poesia che non è mai uscita in quella forma e quindi è sostanzialmente inedita. Alcune strofe sono poi finite in un’altra composizione famosa di Ungaretti, L’angelo del popolo. Dopo aver visto il libretto, ci siamo trovati a cercare affannosamente questa poesia, senza trovarla. Nessuno l’ha mai letta tranne quei 50 fortunati che ebbero in dono il libricino. Quindi l’ho voluta pubblicare. E poi la cosa incredibile è che, accanto a questo libretto, abbiamo trovato un quadretto realizzato da non so chi. Un disegno a china che raffigura Ungaretti e mio nonno, il poeta con una penna in mano che corregge un libretto e il titolo di questo quadretto è ‘Ungaretti ha corretto L’Inno’. Il libretto famoso di parliamo contiene correzioni che poi sono state effettivamente riportate da Ungaretti. Quindi quel quadretto è una sorta di selfie ante litteram».
Possiamo solo immaginare l’emozione di questa scoperta. «Francamente l’idea che io potessi avere tra le mani dei versi scritti da Ungaretti che nessuno aveva letto in quel modo mi ha veramente toccato. E così è successo anche a mia figlia, che mi ha aiutato a sistemare la biblioteca di famiglia: pur avendo fatto studi classici non è appassionata di Ungaretti, essendo molto giovane. Anche lei è rimasta di sasso. E devo dire anche che nelle persone a cui ho raccontato questa storia ho visto grandissimo interesse. L’idea di scrivere il libro mi nasce anche da questo stupore collettivo. È una vicenda che forse può essere messa in comune con tante altre che racconto, poi mi ha preso la mano e alla fine il mio è diventato un libro che entra nei sentimenti della storia del Paese, della mia crescita e di quella dei miei figli. La sfera magica che si è creata intorno a questo trasloco di scatoloni mi ha fatto vivere dei mesi davvero travolgenti».
«I libri si sentono soli» non è solo un tuffo nel passato, ma fa luce anche sul presente: la storia della famiglia e dell’attività professionale di giornalisti si intreccia con quella di Italia. «Sì, perché poi mio padre si è occupato della politica negli anni di piombo. Quindi ho rivissuto tutta quella stagione attraverso i libri sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro che lui aveva raccolto. Papà, poi, è stato anche portavoce di Amintore Fanfani».
C’è l’episodio del primo incontro fra il padre e Fanfani che la dice lunga sull’atteggiamento culturale dei politici dell’epoca. Una differenza stanziale rispetto a oggi. «Anche questa è una cosa che mi ha colpito tantissimo. Mio padre si recò all’appuntamento con un po’ di preoccupazione: era laico e divorziato, mentre Fanfani era stato il leader della Democrazia Cristiana durante la campagna sul referendum. Il presidente gli aveva offerto di diventare il suo portavoce e lui spiegò con chiarezza le proprie convinzioni e la propria condizione. ‘Queste sono baggianate da preti - gli rispose - non si preoccupi piuttosto una cosa le chiedo: lei non deve avere conflitti di interessi, non deve possedere azioni e se proprio vuole investire, lo faccia solo in titoli di Stato, perché lavora per lo Stato e si deve fidare dello Stato’. Questo ci dà la dimensione rispetto a tutto quello che abbiamo visto nella Seconda Repubblica. Nella Prima ci saranno certamente stati anche gravi problemi, non voglio certo fare una classifica, però c’era questa etica: Fanfani era un professore universitario, aveva studiato economia ed era una persona di grande rigore. Questo modo di vedere la politica come servizio con un politico che deve rimanere lontano dagli interessi particolari personali economici e finanziari, secondo me, è una lezione che tanti hanno dimenticato. Purtroppo».
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