L'ANALISI
05 Novembre 2025 - 05:20
CREMONA - «Eppure là ho avuto una sensazione di pace». È stata la battuta conclusiva del colloquio-intervista che, insieme al direttore de La Provincia di Cremona e Crema, Paolo Gualandris, abbiamo avuto in questi giorni con il vescovo Antonio Napolioni, da poco rientrato dal breve pellegrinaggio in Terra Santa effettuato con gli altri pastori delle diocesi della Lombardia. Un’idea «nata a marzo», su sollecitazione della Custodia francescana, anche per riavviare pellegrinaggi e viaggi nei luoghi santi, per lo più interrotti dopo l’eccidio compiuto da Hamas il 7 ottobre 2023 e il prolungato attacco israeliano su Gaza.

Monsignor Napolioni, quale è stata da parte vostra la percezione della tregua, pur fragile, attualmente in corso?
«Noi, con base a Gerusalemme, non abbiamo incontrato difficoltà, anzi forse è andata meglio che in occasioni precedenti, di venti o trent’anni fa. Non c’è stato nei nostri confronti alcun segno di intolleranza. Certo, ci sono da attraversare molti check-point, con limitazioni dei movimenti nei territori palestinesi per coloro che devono recarsi al lavoro in Israele, e poi ci sono gli insediamenti aggressivi dei coloni in Cisgiordania. Ma la vita di chi arriva nella città santa è favorita dall’ospitalità di entrambi i popoli, israeliano e palestinese».
«La Terra Santa ci attende», ha detto nell’omelia di Ognissanti. Si prevede adesso una ripresa dei pellegrinaggi verso quelle zone del mondo?
«La Terra Santa ha bisogno dei cristiani che portano riconciliazione, anche perché vive della presenza di pellegrini e turisti. Sarebbe intanto bene che il governo togliesse lo sconsiglio di effettuare viaggi, poi le condizioni di una ripresa matureranno nel tempo. In sintesi: per il turista è tutto tranquillo, per il pellegrino è ‘provocante’, per chi ci abita la situazione rimane complicata».
Che clima umano ha sperimentato?
«Innanzitutto rispetto, ma ancor più testimonianze di speranza. Mi ha colpito, il primo giorno, l’incontro con le donne beduine nel deserto dove una comunità di suore ha creato con loro una scuola per l’infanzia, sempre aperta, senza barriere confessionali. Poi i preti che nell’unico villaggio cattolico della Cisgiordania lavorano per i palestinesi, soprattutto inventando occasioni di lavoro per non perdere i giovani; o il prete, a Gerusalemme nuova, che segue una comunità cattolica di cultura ebraica, testimone della fede anche nel popolo d’Israele. In accordo con il patriarcato è riuscito ad organizzare un festival che ha messo insieme duecento giovani, ebrei e palestinesi, tutti cristiani, che provano non a dimenticare ma ad incontrarsi su ciò che è possibile. Non posso poi non ricordare i padri di due ragazzine, uno israeliano, Rami, l’altro palestinese, Bassam, che hanno visto le loro figlie uccise dai terroristi o dall’esercito. Insieme nella condizione del dolore e nella testimonianza di pace, si ritengono i migliori amici l’uno dell’altro perché ‘le tue lacrime sono come le mie’. Come altri trecento genitori di giovani uccisi che hanno costituito l’associazione Parents Circle e che si definiscono tutti ‘vittime delle vittime’. Dunque abbiamo avvertito la presenza, profondissima, di molti artigiani della pace, dall’una e dall’altra parte».
Da qui cosa possiamo fare?
«Possiamo educarci ed educare le nostre comunità al rispetto e all’incontro fra le religioni e le culture, dicendo no alle loro strumentalizzazioni a fini politici e di potere, all’abuso del nome di Dio, perché Dio non vuole generare conflitti. C’è una spirale di violenza che va interrotta riconoscendo la fraternità».
Quali i luoghi e i momenti più significativi?
«Dopo l’incontro con le suore comboniane, i beduini e i bambini dell’asilo nel deserto, ci siamo recati a Betlemme partecipando alla processione, rigorosamente alle 12 secondo le regole dello ‘status quo’ (le norme, risalenti all’Impero ottomano, che regolano proprietà e accessi ad alcuni luoghi santi, fra i quali la Basilica della Natività, divisi fra cattolici, ortodossi e armeni, ndr.). Qui abbiamo anche visitato, oltre alla parrocchia di Betlemme, l’istituto Effatà per i bambini audiolesi, sorto negli anni Sessanta per volontà di Paolo VI, dopo il suo pellegrinaggio (1964). Il successivo incontro con il nunzio apostolico (monsignor Adolfo Tito Yllana) ci ha aiutati in una lettura teologica del tema della convivenza umana; poi la visita al villaggio cattolico di Taybeh, identificato con l’antica Efraim, dove sostò anche San Charles de Foucauld».
E a Gerusalemme?
«La veglia e la celebrazione al Getsemani, e l’incontro serale con il vicario della Custodia francescana (fra Ulises Zarza) che da ottocento anni non solo custodisce i luoghi ma cura l’animazione cristiana della Terra Santa e può contare su un’ottantina di giovani frati da tutto il mondo. Il pellegrinaggio ha avuto il suo culmine al Santo Sepolcro. Poi, l’ultimo giorno, al patriarcato latino l’incontro con il cardinale Pierbattista Pizzaballa, da 35 anni in Terra Santa, frate e uomo di studio, di preghiera e di passione, bergamasco, che si è formato qui in Lombardia e si è preparato all’ordinazione al santuario di Caravaggio: la mamma è di Brignano Gera d’Adda, che fa parte della nostra Diocesi. Il patriarca ci ha illustrato la complessità della situazione e ci ha ringraziati della nostra partecipazione. In Terra Santa occorre esserci per offrire servizi importanti: la Cei ad esempio ha in progetto l’apertura di un ospedale a Gaza, mentre un’altra opportunità è data dalle scuole cattoliche, che sono aperte a tutti».
Il viaggio ha avuto anche un significato politico?
«Direi piuttosto sociale, umanitario, fraterno, se si vuole ‘politico in senso alto’, di ciò che la logica del Vangelo propone. Ma soprattutto ci ha consegnato valori spirituali: gli ebrei come fratelli maggiori, i musulmani come gli ultimi arrivati nella famiglia delle fedi monoteistiche, noi cristiani in mezzo a custodire il Vangelo di Gesù come paradigma della pace. Spesso anche noi in passato siamo stati da una parte contro l’altra, ora vogliamo essere lievito di pace, di dialogo e di speranza. Vedendo ogni giovane adulto ebreo, mi sono detto: ecco San Giuseppe. E davanti alle ragazze palestinesi: ecco Maria. Gesù, figlio di Dio, è venuto nel mondo dentro questi due popoli».
Si torna cambiati dalla Terra Santa?
«Da giovane pensavo che non ci fosse bisogno di andarci; la prima volta che ci sono andato, a 30 anni, ho sentito il significato sacramentale di quella Terra. È l’ambiente stesso che ci parla di Gesù. Certo, sono importanti i santuari, ma anche i contesti naturali: il deserto, il lago, la vegetazione sono gli ambienti ai quali Gesù fa costante riferimento. E poi i luoghi delle altre fedi che comunque ci interpellano: il Sinai, il Muro del pianto, la Spianata delle moschee. Anch’io a Gerusalemme vado a pregare al Muro del pianto come aveva fatto Giovanni Paolo II. È un pellegrinaggio alle nostre radici. Abramo è colui che ci unisce, ed è ciò che ci unisce che va cercato più di ciò che ci divide. Dobbiamo conoscerci meglio, anche qui a Cremona. Gerusalemme significa ‘città della pace’, è la città dei cercatori di Dio, e noi abbiamo la grande responsabilità di testimoniare il vero volto di Dio».
L’arcivescovo di Milano Delpini ha parlato di due popoli che hanno sofferto troppo e fatto troppo soffrire.
«Sì, è quello che accade quando la violenza è ritenuta l’unico modo per affrontare i conflitti, quando si cede a una lettura violenta e forzata delle Scritture sacre. È una tendenza presente nelle religioni, non esclusa la nostra, come avvertito da papa Francesco e adesso da Leone XIV, un Papa ‘diversamente americano’».
Il rischio è sempre quello dell’estremismo.
«Come ho detto una volta in un’omelia, noi cristiani non siamo estremisti né di destra né di sinistra, ma dobbiamo essere estremisti dell’alto, cioè del cielo di Dio, e del basso, cioè dei piccoli e dei poveri. La parola-chiave, in entrambe le direzioni, è l’ascolto. Dio è il grande ascoltatore, Maria è la grande ascoltatrice, noi come Chiesa italiana impegnata nel cammino sinodale siamo impegnati a metterci in ascolto. Anche del Papa, che incontreremo ad Assisi, tra il 17 e il 20 novembre, alla prossima assemblea generale della Cei».
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