L'ANALISI
Nella Sala del rattoppo fino al 31 gennaio
30 Dicembre 2015 - 15:25
Ci sono le anatre da richiamo e gli imparaticci dei ricami, i santini e gli stampi per fare il burro, i gioghi e le falci. Ci sono gli oggetti del lavoro domestico e di quello nei campi, gli attrezzi della pesca e gli strumenti del sacro: sono i Tesori nascosti che danno vita all’omonima mostra ospitata fino al 31 gennaio prossimo al Museo del Lino. Curata da Fabrizio Merisi, che del museo è direttore (e che è anche artista), l’esposizione inaugura la Sala del rattoppo e ha il pregio di unire in un unico allestimento oggetti provenienti da diversi musei etnografici lombardi: il Polironiano di San Benedetto Po, i musei della Valle Cavargna, dell’Alta Brianza, il ‘Giacomo Bergomi’ di Montichiari, il museo di Storia dell’agricoltura di Sant’Angelo Lodigiano, il Sistema museale della Valle Camonica e, naturalmente, la collezione di Pescarolo.
Sono quindi ‘tesori’ gli oggetti d’uso quotidiano di una civiltà rurale e contadina, di un mondo produttivo qui testimoniato senza sguardi di nostalgia e neppure inseriti in un contesto fintamente verista. Pulito, al limite del ‘trasparente’ — e lo sono le teche —, l’allestimento di Merisi estrania volutamente alcuni oggetti dal loro contesto e li restituisce nella loro purezza allo sguardo del visitatore, sconfinando nel simbolico, nel sacro, nei rimandi ancestrali. Gli oggetti ridisegnano un mondo travolto nel secondo dopoguerra, ma già intaccato nei primi decenni del Novecento. E’ un mondo che pochi ormai ricordano, che quasi nessuno ha visto. E’ un mondo preindustriale, in cui i giorni li misuravano il sole, la luna e le stagioni. E’ un mondo in cui gli attrezzi del lavoro agricolo o di quello femminile — fatte salve le differenti caratteristiche territoriali — hanno forme che si tramandano da secoli. Rubando la citazione a Gertrude Stein, viene da dire che una falce è una falce è una falce: e non si può non constatare come il mirabile equilibrio tra forma e funzione abbia come naturale approdo la bellezza e una profonda attenzione all’estetica. Perché se il lavoro è fatica, meritano rispetto sia il prodotto che se ne deriva sia gli oggetti necessari alla produzione. E questo con le connessioni simboliche che ciò comporta, e gli inevitabili sconfinamenti nel sacro. Già, il sacro. Presente o intuibile in certe figure ornamentali apotropaiche, nei ‘brevi’, ovvero quei sacchettini cuciti a mano con dentro materiali devozionali da tenere sul corpo, nei santini come nei modelli di cera e stoffa di Maria Bambina dati in dote alle giovani spose. Oppure il sacro presente — tra auspicio e superstizione in uno sconfinamento continuo nel profano — nei riti che accompagnano i cicli del lavoro, nelle grottesche inserite nei muri delle case. Sono le donne, osserva Stefana Mariotti, presidente del Museo del lino, il «tramite tra il divino e le necessità quotidiane». A loro è dedicata una sezione, e certo il loro lavoro non era meno duro (di sicuro più misconosciuto) di quello degli uomini. L’apprendistato cominciava da bambine, e lo dimostrano i teneri imparaticci con cui mani che si sarebbero indurite e piagate nell’acqua dei bucati e nel fuoco delle cucine, come nella cura degli orti imparavano a destreggiarsi tra fili sottili, a disegnare parole di cui forse — analfabete come erano quasi tutte — ignoravano il senso.
Barbara Caffi
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