L'ANALISI
12 Novembre 2024 - 05:25
Al termine dell’Assemblea Costituente, Benjamin Franklin rispose a una signora che gli chiedeva se avessero istituito una monarchia o una repubblica: «Una repubblica, se saprete mantenerla». Dopo queste elezioni, sorge il dubbio che gli americani siano ancora capaci di mantenere una repubblica o se, invece, stiano cedendo al fascino di un autocrate.
Pronto a ignorare regole e istituzioni e che in campagna elettorale ha promesso almeno un giorno di violenza, l’uso delle forze armate per reprimere proteste sul territorio nazionale, la persecuzione dei suoi oppositori politici e la sospensione o addirittura l’abolizione della Costituzione stessa sulla quale la repubblica fonda la sua esistenza. Queste ultime elezioni presidenziali rivelano una lunga serie di paradossi estremi nella società americana.
Un paese di emigranti ha votato in massa chi promuove muri e deportazioni di massa e da anni sta usando una retorica antimigratoria offensiva e stantia. L’accusa, mai smentita da Trump, agli emigranti di Haiti (richiedenti asilo e quindi legalmente negli Usa) di mangiare cani e gatti è esattamente la stessa accusa che veniva rivolta a fine ottocento ai nostri connazionali italiani che sbarcavano a Ellis Island. Molti poveri hanno votato per i miliardari; una significativa percentuale di maschi ispanici ha scelto chi minaccia di deportare i loro stessi familiari.
Scelte che sembrano ispirate più da una sorta di masochismo politico che da un calcolo di interesse. Per citare un liceale nel film Caterina va in città di Paolo Virzì, «i comunisti con quelli ricchi e con tante lauree e i fascisti sono quelli poveri e ignoranti». Sostituiamo democratici e repubblicani a comunisti e fascisti e avremo una imperfetta ma colorita ed efficace descrizione della società americana che ha eletto Trump. Per i maschi giovani senza titoli di studio che hanno determinato il trionfo di Trump, lui è diventato simbolo di ribellione, un grande ‘vaffa vivente’, qualcuno che incarna il disprezzo per le regole e per le istituzioni dalle quali si sono sentiti ignorati e trascurati.
Gli elettori, soprattutto i maschi bianchi non laureati, ma in numero crescente anche gli ispanici sono affascinati da questo atteggiamento più che dai contenuti fumosi del suo programma economico. I veri sconfitti di queste elezioni sono i partiti principali: ne escono distrutti e senza prospettive. I partiti politici che la Costituzione non prevedeva e non auspicava, non hanno mai veramente gestito il potere, sono sempre stati due pachidermi che uscivano dal letargo brevemente per le convention che eleggono i candidati alla presidenza e poi tornavano subito al loro naturale stato di torpore, ma adesso la faccenda è diversa.
Il Partito Repubblicano ha pagato il prezzo di una profonda disgregazione interna; Trump ha prevalso, ma ha demolito la struttura interna del partito e gli ha rubato l’anima. Quello che un tempo era il partito della legge e dell’ordine ha finito per eleggere un condannato, con dozzine di accuse penali pendenti. Trump ha liquidato figure di peso come l’ex candidato Mitt Romney, l’intera dinastia Bush e ha sbertucciato e deriso anche dopo morti padri nobili come John McCain, eroe di guerra, definito da Trump, uno sfigato. Al loro posto Trump è riuscito a far eleggere una flotta di suoi piccoli cloni. Mentre Reagan aveva allargato la sua base elettorale convincendo i moderati che gravitavano verso il partito democratico, Trump ha preferito fare appello all’estrema destra, a quell’arcipelago di suprematisti bianchi, cospirazionisti, e antivax. Il Grand Old Party non c’è più, cannibalizzato da Maga (il movimento trumpiano Make America Great Again).
Ancora più lacerato da lotte interne appare il Partito Democratico, alla ricerca di colpe e responsabilità per la batosta subita. I suoi leader storici, Joe Biden e Nancy Pelosi, non si parlano. Biden ha danneggiato Harris ritardando il ritiro della sua candidatura, limitando il tempo a disposizione della sua vice per la campagna elettorale. Proprio la sua decisione tardiva di rinunciare alla candidatura l’ha fatto apparire come un vecchio egocentrico attaccato alla poltrona senz’altro non in grado di ricucire adesso l’ala centrista con quella più radicale che continuano a coesistere nel partito dell’asinello praticamente ignorandosi.
L’ala più radicale del partito rimprovera Harris di non aver sostenuto abbastanza la classe lavoratrice e di non aver proposto misure concrete per le famiglie a basso reddito. Dopo il dibattito presidenziale, in cui Harris sembrava essersi guadagnata la simpatia del grande pubblico, ora è criticata per elitismo, nonostante Trump sia nato miliardario e il suo vice abbia studiato a Yale, l’università delle elites. La stampa indipendente cerca di spiegare l’esito di queste elezioni attribuendo tutto al costo della vita, dimenticando, come gran parte degli americani, che il presidente non controlla i prezzi.
La sola promessa economica chiara di Trump — imporre dazi sui beni importati — porterebbe paradossalmente portare a un aumento dei prezzi al consumo. Quando si cerca di spiegare la vittoria di Trump, non si può ignorare un fenomeno che sfugge alle interpretazioni razionali e politiche. Sembra quasi un atto di masochismo politico: un elettorato che sceglie chi lo disprezza, chi ignora le sue necessità, chi è disposto a minacciare persino l’integrità delle famiglie degli elettori più vulnerabili. Benjamin Franklin, quando parlava di una repubblica da ‘mantenere’, aveva intuito quanto difficile sarebbe stato per il popolo americano conservare il proprio sistema democratico e non scivolare verso la tentazione di affidarsi all’autorità assoluta di chi, almeno in apparenza, promette soluzioni semplici e immediate ai problemi complessi del paese. Il suo dubbio appare oggi più che mai profetico e inquietante.
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