L'ANALISI
14 Aprile 2023 - 05:20
TORRE DE' PICENARDI - «Qui si sta bene perché c’è pace». Un concetto che emerge quasi ossessivo, e non è difficile capirne il motivo, dalle parole dei profughi afghani ospitati nella Comunità Emmaus di Canove de’ Biazzi.
Sono undici: dieci arrivati da Kabul, via Pakistan, e Subhan nato nei giorni scorsi all’ospedale di Cremona.
Da novembre vivono alla comunità e sono in attesa del permesso per motivi umanitari, essendo giunti in Italia grazie a un corridoio umanitario. Sono tre nuclei famigliari che si stanno integrando, grazie ad Alida, responsabile della comunità, a Patrizia, Rossanna, Bruno e Danzio, insegnanti in pensione che hanno organizzato un corso di italiano, e agli altri ospiti e volontari della comunità. «Sono persone squisite — dice uno di loro — che si danno da fare e danno il loro contributo, lavorando per la comunità».
Scappati da Kabul, si sono rifugiati in un villaggio al confine con il Pakistan e con l’avvento dei talebani, hanno superato il confine per ripararsi a Islamabad da dove, con il corridoio umanitario, hanno raggiunto l’Italia.
I capifamiglia sono Adel 47 anni, Nawshad 25 anni e Bilal 23 anni in Italia con le rispettive mogli e figli. «Il nostro futuro — dicono — lo immaginiamo qui. Sarà difficile tornare in Afghanistan, perché non vediamo, nel breve periodo, una soluzione alla situazione che si è creata. Vorremmo anche proseguire nelle attività che facevamo a Kabul».
«Sono ingegnere informatico e gestionale — dice Adel (nella foto il quarto da sinistra) — e ho lavorato per la televisione di Stato afghana. Curavo i social media della tv e mi ha aiutato, in questo compito, aver studiato due anni giornalismo. Poi con la prima presa del potere dei talebani ho dovuto interrompere quegli studi e scappare in Pakistan, per poi, con Karzai, tornare a Kabul. Adesso i talebani controllano anche la sfera digitale e per noi comunicare con amici e parenti rimasti a Kabul è possibile, tramite smartphone e messaggi, ma è sempre rischioso».
Una vita quindi, quella di Adel, in bilico tra la libertà di stampo occidentale e le limitazioni fondamentaliste dei Mujaheddin.
Nawshad (nella foto il terzo da destra) invece è medico. «Non sono riuscito a fare la specializzazione — racconta —. Vorrei fare Cardiologia e, grazie ai volontari Emmaus, ci stiamo informando sull’attestato di comparabilità che permetta il riconoscimento in Italia del mio titolo di studio e mi permetta anche di accedere alla scuola di specializzazione. Mi piacerebbe tantissimo farlo per essere utile a chi mi ha dato asilo».
Infine c’è Bilal (nella foto il quinto da destra) che è quasi infermiere. «Ho fatto due anni — dice — e mi manca il terzo anno. La fuga dal mio Paese ha interrotto tutto. Mi piacerebbe concludere gli studi qui e mettermi a disposizione di tutti, perché non credo che riuscirò a tornare a casa. Il regime dei talebani è feroce e controlla tutto. Quando meno te l’aspetti entrano in casa tua e non sai mai come va a finire. Qui c’è pace e tranquillità, le donne possono fare cose che a Kabul erano vietate, come andare in bicicletta da sole, e i nostri figli possono vivere sereni».
Nel gruppo ci sono anche un 11enne e un 13enne che stanno frequentando la scuola di Torre de’ Picenardi e, grazie al Comune, hanno trasporti e pasti in mensa gratuiti. Un piccolo aiuto apparente, ma di grande valore per loro.
«Mi trovo molto bene con compagni e professori» dice il 13enne con un perfetto accento italiano.
«L’accoglienza che abbiamo avuto — dicono gli afghani — qui in Italia è stata ottima e soprattutto il senso di serenità che respiriamo qui è imparagonabile al luogo da cui siamo scappati».
Tra i volontari storici di Emmaus c’è anche Mario Bazzani, sindaco di Torre de’ Picenardi che aggiunge: «Il problema dei migranti è trattato in modo confuso in Italia ed è pieno di paradossi. Come questo: chi arriva con i barconi è sotto la competenza delle prefetture, chi arriva attraverso i corridoi umanitari è sotto la competenza dell’associazione che li ospita. Sono tante, ma queste associazioni, che si prendono grandi responsabilità, dallo Stato non vengono minimamente aiutate, nemmeno con un euro».
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