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MOTORI: IL PERSONAGGIO

Da Soncino al mondiale: tutte le vite di Somenzi

Prima pilota, poi meccanico e infine tecnico elettronico al fianco di Petrucci nel team Ducati Superbike. Un ictus nel 2019 lo aveva fermato: «Poi l’operazione e il ritorno nel mondo delle corse al team Barni»

Fabrizio Barbieri

Email:

fbarbieri@laprovinciacr.it

13 Settembre 2024 - 05:35

Da Soncino al mondiale: tutte le vite di Somenzi

SONCINO - L’odore di olio bruciato, il rumore della marmitta. Sembrerebbe tutto normale, se non ci fosse di mezzo la passione. A quel punto tutto assumerebbe un’accezione diversa e l’odore dell’olio diventerebbe profumo e il rumore della marmitta un suono soave. Vivere nei box è così, si diventa una grande famiglia, si lavora gomito a gomito, si è attraversati da un’unica grande passione che a volte può diventare anche terapia. Incontriamo Vasco Somenzi nel suo negozio di Soncino, è lì in officina che guarda le moto in esposizione. Nel negozio ha anche bici elettriche e bici normalissime con il cestino rosa per bambine. Lui si destreggia come una libellula sull’acqua, sorride, ci invita nel suo ufficio dove un cagnolino bianco e nero scorrazza. Chiude la porta e si trasforma in un fiume in piena. L’umiltà di chi si è costruito, di chi continua nell’attività di famiglia nel paese dove è nato ma che ha raggiunto la vetta. Perchè Vasco Somenzi è uno dei sette tecnici più fidati di Danilo Petrucci, in questo momento quinto del mondiale Superbike. Il top dei top, all’interno di uno dei team, il Barni, più vincente della storia. Ma è la storia di Vasco a lasciare a bocca aperta. È ancora giovane, ma la sua vita vale per due, forse per tre. Sposato con Marilena vive a Romanengo, ma alla domanda specifica risponde così: «Sono nato a Soncino e mi sento di Soncino».

Come va?
«Sono stanco, ma quella stanchezza bella. Arriviamo da un ottimo fine settimana con due terzi posti e un secondo sulla pista di Magny Cours in Francia».

Ha visto la Tour Eiffel?
«Sorrido. Perchè in realtà la mia vita è in giro per il mondo ma che sia in Australia, piuttosto che in Olanda, non cambia niente. I costi sono elevatissimi per tutti i team e quindi si arriva all’ultimo momento e si va via appena dopo la gara. La routine è questa: scendo dall’aereo (a volte dopo 20 ore di volo), mi portano in albergo, lascio la borsa e mi trasferisco nel box. Ci sto praticamente per tre giorni e poi torno a casa. Giro il mondo, è vero, ma non vedo nulla di nulla. Non sono mai a casa, ma non è come essere in vacanza...».

Sua moglie Marilena condivide la sua passione?
«La mia è una vita particolare. Sono lontano da casa 120-130 giorni all’anno. All’inizio, quando sono partito dalla gavetta, non era attirata da questo mondo. Poi le cose sono cambiate, ha capito che il mio è un ruolo importante. Ha iniziato a seguire le gare, a interessarsi di più sui dettagli. Adesso a volte viene anche a seguire le gare. Mi dice spesso che è orgogliosa di me e non c’è cosa che mi renda più felice».

Di cosa si occupa esattamente?
«Dell’elettronica. Un ambito non semplice, ma che regala soddisfazioni. Soprattutto che dà una mano al pilota».

Serve sempre spingere al massimo?
«Qua entra in gioco un discorso molto particolare, direi più psicologico. Vi faccio un esempio. La tecnica e la tecnologia fanno passi da gigante e serve sempre cercare di arrivare per primi. Quando hai una moto che tecnicamente può rendere 100, poi deve rendere 100 anche per il pilota. Se chi la guida non è convinto, non si sente a suo agio, può avere a disposizione il meglio ma non lo sfrutterà al massimo. A quel punto è meglio trovare un compromesso. Meglio una moto che vale 80 ma che il pilota spinge a 110. L’aspetto umano, psicologico, caratteriale, conta tantissimo anche in uno sport ipertecnologico come il nostro. Nel box non basta essere bravissimi a fare il proprio lavoro, serve capire cosa serve in quel momento specifico».

Ma parliamo di lei. Dove nasce questa passione?
«Mio padre correva in moto. Con il passare degli anni ha aperto un negozio a Soncino. Io ho iniziato a lavorare qui e presto sono stato contagiato dal virus delle due ruote. Ho iniziato ad andare in moto e spingere. Prima erano Penice, Cisa Vecchia, insomma tutti quei percorsi che chi usa il gas percorre abitualmente tra curve e panorami. Poi ho capito che correre per strada era una follia e ho iniziato a girare in pista che è il posto più sicuro per spingere e divertirsi in massima serenità. Avevo però 21 anni che per un pilota sono tanti se vuoi puntare a qualcosa di serio. Ho fatto gare in un campionato dell’Est Europa. Ora le cose sono cambiate. Una volta per girare in pista dovevi caricare la moto e partire a volte alle 3 del mattino per essere pronto appena dopo l’alba. Chilometri e chilometri tra Mugello, Misano, Varano. Era dura, molto dispendioso, difficile da gestire. Nel 2007 ho smesso. Mi sono detto: o diventi un professionista oppure è meglio che ti dedichi agli altri. Così è stato. Ho iniziato a fare il meccanico per qualche amico. Davo una mano, mettevo a disposizione la mia esperienza. Poi i primi campionati minori, vivendo le situazioni peggiori come mole di lavoro e logistica. Ma in quel momento mi sembrava tutto una favola. E lì non c’era troppa specificità, facevi quello che serviva...».

Poi la prima svolta.
«Mi piaceva fare il meccanico, ma l’elettronica era la mia vera passione. In quegli anni non c’era una scuola specifica da seguire. Tutti gli studi che ho fatto sono state specializzazioni, ma senza un percorso codificato. Ho imparato tanto in pista. Ascoltavo, rubavo piccoli segreti da tutti quanti, osservavo. Ascoltavo soprattutto i piloti, i loro feedback, le loro sensazioni. Poi è arrivata la chiamata dalla Superbike. Mi sembrava incredibile. Ma non volevo fare il meccanico, solo seguire l’elettronica. Nel 2019 è arrivata la grande opportunità con il team Ducati Aruba. Sono entrato nel mondo dei sogni dalla porta principale. Non sapevo che sarebbe stato solo il mio primo inizio...».

Facciamo un passo indietro. Come ha vissuto questi passaggi suo padre. Era felice?
«Non troppo. Reputava questa attività una perdita di tempo. All’inizio si è messo un po’ di traverso. Ci sono stati tanti momenti difficili. Nel 2000 ha aperto il negozio qua a Soncino, ma si era appassionato di auto. Gli ho detto che avrei lavorato con lui, ma solo a patto di gestire solo le moto. Mi ha ascoltato, ma avrebbe voluto che mi dedicassi totalmente a questa attività. Io invece avevo la testa da un’altra parte... Il mio secondo lavoro è diventato presto il primo».

Perchè hanno scelto lei in un team così importante?
«Da una parte perchè faccio bene il mio lavoro, dall’altra perchè i piloti che ho seguito hanno sempre parlato bene di me. Per andare forte in pista devi creare il giusto feeling. Se non fai squadra non vai da nessuna parte. Non si lavora a compartimenti stagni. Il pilota viaggia anche a 320 all’ora e deve fidarsi della moto che gli hai preparato e quindi deve fidarsi di te».

Il grande salto nel momento peggiore...
«In effetti, ma in tempi brevi il Covid non sarebbe stata la cosa più brutta. In ogni caso sono partito con un mondiale monco, prima dovevano essere 13 gare, poi 8. Il virus stava rovinando tutto. Ma la mia vita ha preso una piega tremenda».

Se la sente di spiegarci l’accaduto?
«Certo. Un giorno mi sono sentito male. Non scendo nel tecnico ma di fatto ho avuto un ictus. Sono stato in ospedale e quando ho parlato con il medico mi ha dato una notizia che ho patito come un cazzotto nello stomaco: ‘non potrai più prendere aerei, fare immersioni, andare in quota.’ Tutta la mia vita era cambiata da un giorno all’altro. Ho dato l’addio alle corse, per un anno sono stato sotto massima osservazione. Non nego che sia subentrata anche la depressione. Non volevo più fare nulla. Il 4 aprile del 2021 sono stato operato al San Raffaele a Milano. Quando ho aperto gli occhi ho visto di nuovo un medico davanti a me, ma stavolta la notizia era ben diversa: ‘per me sei totalmente recuperato, puoi fare una vita normale’. Ancora una volta ero tornato in pista dopo una sbandata».

Dopo un anno fermo cosa è successo?
«Volevo rimettermi in gioco. Vicino a qua c’era il team Barni a Calvenzano. Ho bussato alla porta, ho chiesto di poter dare una mano, qualsiasi cosa mi sarebbe andata bene. Avevo solo voglia di ricominciare. Mi è stata prospettata l’opportunità di seguire il campionato nell’Est europeo di basso livello. Lo stesso in cui avevo partecipato nella mia vita da motociclista da ragazzo. Mi è sembrato un segnale. Sono partito con entusiasmo. È stato come rimettermi a correre dopo una frattura. Ho corso talmente veloce che dopo poco mi è arrivata la proposta di tornare in Superbike. Non mi sembrava vero. Nel giro di due anni le porte del paradiso si erano aperte di nuovo e vi assicuro che non è una cosa normale. Ma non ho mai voluto lasciare il campionato dell’Est. Quando posso vado a seguire i piloti anche lì. Considero quel lavoro una sorta di ripartenza della mia vita e voglio che faccia parte di me. In questo senso sono un po’ romantico».

Ora segue Petrucci. Forse uno dei piloti più famosi della Sbk.
«Sì. Siamo in sette a lavorare a stretto contatto con lui. Il team è composto da oltre trenta persone, ma io ho il vantaggio di poter essere vicino al pilota. Siamo al suo completo servizio. Deve essere sereno. Diciamo che il pilota è l’attaccante e noi nel box siamo i centrocampisti che preparano l’assist...».

Cosa serve?
«Essere competenti, trasparenti e pronti. La tecnologia corre velocissima e noi dobbiamo stare al passo. Se in negozio qualcuno mi porta la moto con un problema ho giorni per capire come risolverlo. In pista servono minuti... Tutto va a duecento all’ora, come le moto. Quando lavori con questi campioni non puoi ingannarli. Sono talmente preparati che potrebbero fare qualsiasi lavoro nel box. Con i giovani è diverso. Sono un foglio bianco, sanno di doversi fidare di te per andare forte e non viceversa».

Nella zona del Cremasco c’è un giovane pilota emergente: Borrelli. Lo conosce?
«So che corre e che va forte ma non ho un rapporto diretto. Nel nostro mondo c’è bisogno di confronto, di competizione. Perchè tutti i piloti più forti nascono nel giro di pochi chilometri? Perchè fin da bambini c’è questo spirito. Ora stanno nascendo nuove realtà. La Turchia sta diventando una fucina di talenti. Speriamo anche la nostra zona. Poi ovviamente servono piste, officine, sponsor. Qua da noi non è semplice».

La gente viene in negozio a far sistemare la moto dal tecnico della Sbk?
«A dire il vero non è così automatico. Il motociclista ha un problema e vuole che venga risolto in fretta. Io sto poco tempo in officina».

Stress?
«Tanto. Non conosco nessuno che abbia più di 60 anni che lavori in un box. Adrenalina, tensione, ansia, tutte sensazioni che consumano non solo il pilota ma anche il suo staff».

Per la prima volta tra dieci giorni potrà andare in moto a lavorare...
«È vero e farò proprio così. Sarà un piacere poter correre sul circuito di San Martino del Lago».

Che tracciato si aspetta?
«Onestamente non ne ho idea. So che c’erano delle perplessità all’inizio. Parliamo di una pista giovane che per la prima volta ospita un evento così importante. So che hanno fatto tanti lavori. Speriamo che tutto sia perfetto. Credo che abbiano un accordo di tre anni con la Dorna che organizza il mondiale. In questi tre anni sarà una crescita continua. Serve crescere come pista ma anche fuori. Servono strutture per dormire, mangiare, vivere. Parliamo di un appuntamento che porterà quasi centomila persone in un paese della provincia».

Superbike o MotoGp?
«I puristi amano la Sbk. È il sogno di una moto di serie che corre in pista. La MotoGp è un mondo diverso, affascinante, al limite».

Difficile fare il salto da un campionato all’altro. Quasi nessuno è riuscito a fare bene.
«Parliamo di stili di guida diversi, di regolazioni diverse. Nel futuro vedo ancora più improbabile il salto da un campionato all’altro».

A lei piacerebbe un’esperienza in MotoGp?
«Non è la mia ragione di vita. Diciamo che mi piacerebbe metterla in curriculum. Vorrebbe dire ripartire ancora dall’inizio però. C’è grande differenza tra le moto».

Ci parli della vita nei box.
«Si lavora tanto, si mangia tutti insieme nell’hospitality a orari diversi a seconda delle attività in pista. Il tempo per il divertimento è quasi azzerato».

Il suo circuito preferito?
«Imola. Il regno della velocità. Ha un fascino incredibile».

Tra vent’anni sarà in negozio come suo padre?
«Non lo so, ma credo di volermi godere la pensione...».

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