L'ANALISI
27 Ottobre 2018 - 07:00
Esattamente il 24 maggio del 1934, a Grosseto, durante una gara denominata Coppa Vecchioni, mentre egli era ancora dilettante, Gino Bartali fu vittima di una brutta caduta. Quando lo rialzarono inanimato da terra, il giovane era preda di una violenta commozione cerebrale; la sua vita in pericolo. Il suo viso era tumefatto, pesto; come triturato addirittura per l'urto al suolo ed il susseguente sfregamento: irriconoscibile.
Alcun tempo dopo, dopo oltre un mese di degenza, un grande chirurgo, oggi defunto, allora medico di fiducia del maresciallo Italo Balbo, sottopose Gino Bartali ad una difficile e dolorosissima operazione. Dalle mani abili del chirurgo il volto di Bartali uscì come oggi tutti lo conoscono; quello che i fotografi riprendono. Pochissimi sono coloro che i giornali e le riviste riproducono. Pochissimo sono coloro che del campione d'oggi conoscono il «vero» volto, quello del giovane e pressoché ignorato dilettante caduto a Grosseto, durante una delle sue prime prove ciclistiche.
Ma quello del 1934 non fu che il primo drammatico incidente che capitò al grande corridore toscano. Un secondo, quasi altrettante grave, anche se con conseguenze meno paurose, gli occorse nel 1937: pedalando a precipizio giù dall'Izoard, Bartali slittò improvvisamente come s'è detto una volta, e si trovò malconcio in un torrente dal fondo roccioso, tra massi e acque schiumose, con la bicicletta fracassata. Anche questa volta il pericolo era stato grave: si parlò allora di miracolo, poiché su Gino aleggiava la fama della sua religiosità. «Bartali il pio», già lo si chiamava da molti; e questa frase doveva consacrare la sua riconosciuta fede di cattolico fervente e praticante.
Ma, così come pochi sanno che il volto di Bartali è stato rifatto da abili mani di chirurgo, ancora pochi sanno come appunto da una sciagura germogliò, sino a radicarsi profondamente in lui, quella autentica fede religiosa che accompagna la sua passione sportiva. E la sciagura che tale sentimento religioso generò, fu quella mortale toccata al fratello Giulio. Il ricordo di Giulio Bartali, spentosi a vent'anni, proprio quando Gino diveniva professionista affacciandosi al balcone della notorietà, rende tuttora sempre pensoso e triste il campione. Il dolore di quella perdita è sempre vivo ed evidente in lui. Gino parla del fratello Giulio con una tenerezza ed un tono di altissima umanità. Egli giudicava il fratello, di lui più giovane di circa tre anni, atleticamente più prestante, più forte, addirittura più adatto alle battaglie sportive: gli lo aveva indirizzato alle gare ciclistiche.
«Era forte e più a posto di me ed era un bellissimo giovane». E in questo giudizio è tutto l'affetto di Gino per il fratello. Sulla scia del grande campione, allora agli inizi vittoriosi, Giulio s'era lanciato, inforcando anche egli la bicicletta. Ed erano stati appunto i primi allori di Gino a convincere i genitori; il permesso di correre era stato accordato anche al figlio minore.
Il giorno della sciagura Giulio Bartali aveva partecipato ad una corsa nei dintorni di Firenze. A meno da dieci chilometri da casa; sulla via del ritorno e su di una strada che peraltro egli conosceva perfettamente, Giulio si lanciò con fredda audacia per una discesa. La strada era in pessimo stato, il fondo malmesso; ed il giovane era indubbiamente provato dalla stanchezza della gara e dai chilometri del ritorno. Pur tuttavia la velocità di Giulio, nella discesa, era forte. Una automobile saliva, in senso opposto. E fu un attimo. Avvenne lo scontro e la morte del ciclista.
Sino a quel giorno Gino Bartali, pur allevato e cresciuto in un sanissimo ambiente familiare di religiosi e di morali, era stato un giovanotto allegro e privo affatto di pensieri, un uomo libero, molto libero, diremmo. «I divertimenti, anche se molto frivoli, mi piacevano», non ha difficoltà a dichiarare in ogni momento. E non v'è di che meravigliarsi.
Era quello il tempo meraviglioso e caldo delle sue prime glorie sportive, delle sue prime conquiste, della notorietà che saliva sempre più rapidamente intorno al suo nome. Naturalmente non mancarono a Gino avventure galanti, ed in buon numero. Anche il suo carattere non era precisamente remissivo o conciliante; non era, insomma, quel «Bartali il pio» che oggi tutti conoscono.
Ma non appena ebbe appreso la morte del fratello, per il quale abbiamo detto, nutriva un affetto profondo ed indicibile, il campione il ritirò nella sua stanza, nella casa paterna. Vi rimase, chiuso, per lunghi giorni. Il dolore della sciagura e la riflessione sulla mortale, misera condizione dell'essere umano, operò in lui una radicale trasformazione; provocò nel suo animo una intensa, compiuta tendenza alla serenità religiosa. La morte di Giulio gli rivelò il conforto della fede, lo indirizzò alla contemplazione, alla preghiera. Questo in un momento in cui tutto il suo essere era in formazione. Il più popolare dei campioni sportivi del nostro tempo iniziò a pregare furiosamente — con fanatismo, diranno alcuni — per l'anima del fratello. E da quel momento fede e sport (la vita interiore e le manifestazioni della sua vita esteriore, agonistica) si associarono, si legarono in maniera indissolubile.
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