L'ANALISI
24 Novembre 2025 - 05:25
Il regista Alessandro Serra e una scena di Tragùdia Il canto di Edipo
CREMONA - È in lizza per l’Ubu – l’oscar del teatro italiano - come miglior regista, miglior disegno luci e musiche, è artista a tutto tondo, è regista autorale Alessandro Serra che con ‘Tragùdìa Il canto di Edipo’ aprirà mercoledì (ore 20,30) il cartellone 2025/2026 della prosa del Ponchielli intitolato, provocatoriamente, Classici!/?.
Ed allora modo migliore non poteva esserci di iniziare la riflessione su cosa voglia dire ‘classico’ che partire con l’origine del teatro, quella tragedia, canto del capro che è fondamento della cultura occidentale, oltre che del teatro. Alessandro Serra e la sua compagnia ‘Teatropersona’ sono già stati ospiti del massimo teatro cittadino con ‘Il Giardino dei ciliegi’ (2022) e con ‘Macbettu’ (2021). E proprio da quel Macbettu in sardo si crede di poter partire, chiacchierando con Serra per raccontare o capire il perché il regista abbia tradotto la tragedia di Edipo – una sintesi di Edipo Re ed Edipo a Colono – in lingua grecanica, con sovratitoli in italiano.
«L’italiano è una lingua che non nasce nel corpo, ma nella mente di autori eccelsi — spiega Serra -. Lingua squisitamente letteraria ma sempre più platealmente manipolata dalla televisione, perciò musicalmente assai fragile. I grandi attori possono certo farla risuonare in maniera sublime ma per quanto mi riguarda non la ritengo idonea a incarnare forze arcaiche ed ebbrezze dionisiache. Non che non si possa fare, ma è come avere uno strumento non accordato col rischio di fare teatro di prosa e scambiare eroi per personaggi».

Che cosa produce a livello drammaturgico la scelta di usare un altro idioma, rispetto all’italiano?
«Il testo grecanico che ho consegnato agli attori possiede una sua innata musicalità ma non ho voluto che gli attori avessero riscontro coi parlanti per evitare il rischio di riprodurre sonorità e cadenze del parlato quotidiano. Va ricordato che il greco di Sofocle era una lingua lirica e musicale (a tratti incomprensibile agli spettatori). Il rischio è parlare in teatro come si fa nella vita, cioè imitare una recita. Abbiamo quindi cercato i suoni nei nostri corpi, in coro, facendo rotolare la parola per ore e ore finché non ne scaturivano suoni. Ne è nata una lingua che trascende quella parlata pur essendo perfettamente riconoscibile dai parlanti».
Tragùdia porta a sintesi Edipo Re ed Edipo a Colono. Come ha unito i due testi?
«Ho attuato una fusione a freddo dei due capolavori di Sofocle aggiungendo elementi del mito per rendere più agile la fruizione degli spettatori e agevolare l’abbandono alla visione e all’ascolto. Ho riscritto il testo in un italiano agile, ricostruito i cori e adoperato delle scelte di ordine musicale tra le meravigliose proposte di traduzione del poeta Salvino Nucera. Il maestro de Franceschi mi ha chiesto di dare un nome a ogni coro indicando la musica che immaginavo. Nominare significa individuare l’archetipo. Quando Diego Lanza scrive la sua opera sulla tragedia greca la nomina ‘La disciplina dell’emozione’: il nome ha già detto tutto. Una parte dei canti è stata composta prima delle prove, ma la parte più dionisiaca si è manifestata quando i canti venivano letteralmente lanciati in scena. Tutto questo materiale è stato alchemicamente fatto reagire con la scena e le umanità degli artisti che si sono fatti corpo e canto».
Lo spettacolo sembra un omaggio alle origini rituali del teatro. C’è bisogno di tornare alle origini per capire la potenza di questo linguaggio antico e potente?
«A proposito di lingue bizantine c’è un inno sublime che dice ‘Noi che misteriosamente simboleggiamo i cherubini, deponiamo ora ogni sollecitudine mondana’. Oggi in teatro l’unico rito è proprio quello mondano. Abbandonarne ogni sollecitudine dovrebbe essere il mandato da consegnare alle nuove generazioni. Noi abbiamo fallito. Oggi è tutto un mostrarsi e apparire, ma in teatro si può tornare a essere una collettività. Usare l’immaginario collettivo per creare dispositivi utili ad accendere l’inconscio collettivo. L’anima mundi. La sensazione fisica e spirituale di essere tutti parte del tutto che è l’uno. Sia chiaro ciò non ha nulla a che vedere con il genere di teatro ma riguarda il coraggio di fare teatro coi mezzi del teatro: il corpo, la voce, lo spazio, la manipolazione del tempo».
Quanto l’estetica che porta in scena è sostanza e non pura forma?
«L’arte sacra non è tale perché rappresenta un evento religioso, è sacra per come è dipinta. La pittura di Giotto è santità dice Simone Weil. La dislocazione dei suoi colori è sacra. Nell’arte la sostanza non esiste, esiste solo la forma che è sostanza. La forma formante dell’archetipo. Calvino aveva ragione: ‘il linguaggio è ciò che vogliamo dire’. Certo in un’epoca di dualismo dilagante e crisi identitarie si è ossessionati dal dover prendere una posizione, esprimere un punto di vista. Il teatro deve essere politico nella prassi e nella forma non nel contenuto, altrimenti è propaganda, così come deve essere sacro senza essere religioso. Aspettando Godot ad esempio è politico e metafisico. Vladimiro guarda Estragone che dorme e dice: Qualcuno starà guardando anche me, anche di me qualcuno starà dicendo, dorme, non sa niente, lasciamolo dormire. Ecco in teatro questa dovrebbe essere la relazione quantistica tra attori e spettatori, pura trascendenza.
Cosa immagina si porti a casa lo spettatore dal suo lavoro?
«Un piccolo soffio di luce che si deposita nell’anima».
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