L'ANALISI
23 Novembre 2025 - 11:44
CREMONA - È stata inviata in Ucraina e nella Striscia di Gaza. Originaria di Mantova, ha cominciato a fare la giornalista alla Gazzetta di Mantova «ma ho sempre avuto la passione per gli esteri», racconta Veronica Fernandes, giornalista di RaiNews24 inviata in alcune delle aree di conflitto più delicate al mondo, vincitrice del Premio di giornalismo Maria Grazia Cutuli. Fenandes questo pomeriggio alle 14 nel ridotto del Ponchielli dialogherà col musicologo Vincenzo Borghetti di popoli e identità, partendo dalla messinscena del Nabucco: OperaTalk è un modo per capire come anche l’opera lirica possa offrire spunti di riflessione attuali.

Da inviata di guerra, come legge il nesso tra ‘popolo’, ‘identità’ e conflitto?
«La guerra porta l’identità a un livello più verticale, più radicale. In Ucraina questo lo si vede chiaramente: l’invasione ha costretto il Paese a ridefinire pubblicamente chi è. Prima era un’identità forte ma sfumata, intrecciata con la lingua russa, con la memoria sovietica, con un passato condiviso. Dopo il 24 febbraio 2022, l’identità diventa una dichiarazione esplicita: tatuaggi patriottici, bandiere ovunque, la lingua ucraina scelta anche da chi ha sempre parlato russo. Faccio un esempio molto umano: ricordo, nei primi mesi del conflitto, cantati e influencer che si scusavano con i fan perché cambiavano lingua nei video. ‘Il nostro ucraino è pieno di buchi’, dicevano, ‘ma è una scelta politica’. Dietro c’è un senso di responsabilità identitaria che nasce dalla paura di scomparire. E poi c’è la dimensione civile del fronte: il macellaio accanto all’ingegnere, la maestra accanto all’autotrasportatore. La guerra mescola tutto. Le persone scendono dai propri ruoli e si ritrovano — letteralmente — a combattere fianco a fianco. Il popolo diventa corpo unico. E nel suo contrario: chi resta nelle zone bombardate. A Bakhmut, a Soledar, ho conosciuto anziani che rifiutavano l’evacuazione perché non volevano abbandonare la loro identità geografica. Non era ideologia. Era appartenenza concreta: ‘Io sono qui da tutta la vita. Se me ne vado, chi sono?’».
E nella Striscia di Gaza? La questione identitaria e di popolo come si pone?
«A Gaza l’identità non è un processo, è una condizione. Non nasce dalla guerra: è precedente alla guerra e continuamente negata. I palestinesi non ‘rivendicano’ una terra: sono quel luogo. L’identità nazionale è chiarissima, radicata, millenaria. Solo che politicamente è stata negata per un secolo prima dai colonialismi europei, poi dai giochi geopolitici occidentali, oggi dal sistema israeliano, che nei discorsi pubblici chiama i palestinesi ‘arabi’, non ‘palestinesi’. Non è un dettaglio. ‘Arabi’ significa diluire l’identità: come dire: ‘potete stare altrove’. In più c’è la fatica esistenziale di affermarsi mentre tutto attorno ti schiaccia: occupazione, guerra, restrizioni, bombardamenti, e ora il genocidio. La loro identità non si rafforza perché c’è un nemico si rafforza perché è una delle poche cose che non possono togliere loro».
Vivendo entrambi i fronti — Gaza e Ucraina — vede una possibile fine?
«Al momento no. Non nel senso di ‘pace’. La parola pace richiede condizioni che oggi non ci sono né a Est né a Sud. A Gaza, il piano Trump ha avuto due effetti concreti: ha riportato a casa gli ostaggi vivi e ha parzialmente frenato i bombardamenti. Ma non ha affrontato niente del sistema che li ha generati. La guerra, infatti, non è finita. E soprattutto, continua il divieto ai giornalisti internazionali di entrare: una decisione senza precedenti, che oscura un pezzo della realtà. In Ucraina, il nuovo piano statunitense segue la stessa logica: un obiettivo politico americano, non ucraino. Gli ucraini non sono stati consultati. C’è dipendenza dagli aiuti, c’è l’industria bellica da sviluppare, c’è un fronte che si è stabilizzato ma non pacificato. Sono guerre che si congelano, non si risolvono».
Qual è la difficoltà più grande nel raccontare?
«Fare il giornalista di guerra è un’enorme esperienza umana perché tu ti confronti con il lembo più estremo dell’umanità Lo sguardo libero devi conquistartelo ogni giorno. Il rischio più grande è dimenticare il privilegio che hai. Noi possiamo prendere un aereo e tornare a casa. Le persone che intervisti no. Le persone che incontri non hanno scelta, vivere con la guerra è una necessità. Per noi una è scelta, impegnativa, forte, ma pur sempre una scelta. E questa asimmetria rischia di distorcere lo sguardo. Per questo dico sempre che la guerra è un confine umano: ti porta al limite della capacità di capire gli altri. Ricordo famiglie che vivevano sotto i bombardamenti e che, quando bussavi alla porta, ti aprivano non solo casa, ma dolore, perdita, quotidianità sconvolta».
E la paura? Come la gestisce?
«La mia paura è chiedere a qualcuno di raccontarti il proprio dolore e temere di non farne buon uso. Una madre palestinese che ho intervistato aveva perso un figlio ucciso da soldati israeliani. Anni dopo, sua figlia — che voleva diventare giornalista — è stata uccisa da forze palestinesi. Lei ha aperto entrambe le ferite davanti a noi. Ha fatto lo sforzo enorme di trovare le parole per provare a descrivere a noi che cosa stesse succedendo dentro di lei ma anche intorno a lei. La mia paura più profonda era quella di lasciarla più vulnerabile di prima. O che la sua storia non contribuisse davvero a costruire una consapevolezza collettiva».
C’è un modo di raccontare la guerra al femminile rispetto al racconto che uò fare un collega uomo?
«Per me la differenza è nell’avere figli. Io ho due figlie di 7 e 10 anni. Le loro domande — senza filtri, senza sovrastrutture — ti costringono a guardare la guerra per ciò che è: l’assurdità della distruzione umana. ‘Perché nessuno le ferma?’ è una domanda che non puoi evadere. Questo cambia il modo in cui ascolti i genitori ucraini nei rifugi, i bambini palestinesi ai checkpoint, le famiglie che vivono tra macerie e futuro incerto. Ti mette davanti al nucleo: la guerra non è geopolitica, è vita quotidiana spezzata».
C’è voglia di capire, soprattutto fra gli adolescenti che molto spesso lamentano che si parla solo di vittime e non delle cause dei conflitti. Come si conciliano i due piani?
«Serve un doppio livello. Uno: spiegare i meccanismi, convenienze politiche, economiche, industrie, alleanze. È necessario per capire perché una guerra scoppia e chi ci guadagna. Due: raccontare il quotidiano delle persone. Se guardi solo alla geopolitica perdi l’umanità. Se guardi solo al dolore perdi la comprensione. In Ucraina le famiglie oggi scelgono le scuole per la qualità del rifugio antiaereo, non per la didattica. A Gaza si sceglie l’unica scuola raggiungibile, perché le altre sono dietro ai checkpoint. Le guerre degli altri diventano anche le nostre quando iniziano a metterci a disagio, a non riuscire a far finta di niente».
Perché per Gaza le piazze italiane ci hanno messo così tanto? Siamo anestetizzati all’orrore?
«Io non parlerei di anestesia. Parlerei di una mobilitazione che ha preso forme nuove. Prima sui social e poi nelle piazze. Penso ai tantissimi che hanno tradotto le testimonianze degli abitanti di Gaza, ai profili che hanno riportato la storia palestinese senza filtri, a chi ha creato una memoria condivisa attraverso i video e le dirette. È stata una mobilitazione meno visibile, ma profondissima. Poi è arrivata la flottiglia italiana, e lì le piazze si sono riempite. Mi sono sentita dire a Gaza: ‘Grazie per le piazze. Grazie per la flottiglia. Grazie per la società civile italiana’. È stato un momento in cui le persone hanno visto che non erano sole».
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