L'ANALISI
13 Novembre 2025 - 05:25
CASALBUTTANO - È un viaggio nei ruggenti anni Sessanta, un viaggio raccontato da Walter Veltroni, giornalista, politico di prima linea del Partito Comunista fino alle ultime trasformazioni della sinistra italiana. Direttore dell’Unità, grande appassionato di cinema, romanziere, ma soprattutto testimone del suo tempo. E così ad un certo punto arriva la necessità e il ‘dovere’ di raccontare, di testimoniare quegli anni che hanno trasformato il Paese. È con questo spirito di servizio che domani alle 21 al teatro Bellini il cartellone, firmato da Beppe Arena, si aprirà con lo spettacolo ‘Le emozioni che abbiamo vissuto’ di e con Walter Veltroni, accompagnato al pianoforte da Gabriele Rossi e sostenuto dalle scene di Angelo Lodi. La produzione è del Centro Teatrale Bresciano.
Come è nata l’idea di andare in scena?
«È nata come se fosse una specie di dovere. Penso che chi ha vissuto, come me, una vita così intensa — sia in termini quantitativi che qualitativi — abbia il dovere di raccontarla. Il racconto per me è un dovere. In fondo è l’anima e l’essenza della vita. Siamo figli del racconto, da quello dei nostri genitori a quello dei libri, dei film o degli amici. Ho pensato che fosse giusto raccontare com’erano quei tempi, come li ho vissuti io, bambino. Quegli anni avevano un’energia tale da imprimersi nella memoria. Li ricordo più lucidamente degli anni Ottanta. Ho voluto raccontarli anche per trasferire le emozioni di quel tempo, perché è stato davvero un tempo emozionante».
Come si riesce a restituire quel tempo che oggi appare così distante?
«Gli anni Sessanta cominciano solo quindici anni dopo la fine della guerra. Quindici anni dopo! Quando si aprirono le Olimpiadi di Roma, un soffio prima c’era stata la guerra. Poi arrivarono la scolarizzazione di massa, la televisione, l’Autostrada del Sole, i Beatles, Giovanni XXIII, Kennedy, James Bond… Era un’esplosione di fuochi d’artificio. C’era sempre qualcosa che ti emozionava. Don Milani, Che Guevara, in ogni campo della vita si aveva la sensazione meravigliosa di una costante scoperta di qualcosa di nuovo e di possibile. Io volevo restituire, attraverso le emozioni, questa positività. Anche quando si sta nel tunnel — e Dio solo sa quanto fosse buio quello del 1945 — alla fine c’è la luce».
La generazione dei giovani di oggi come recepisce il suo lavoro?
«Spero che arrivi soprattutto un messaggio di speranza: una speranza legata all’impegno, alla curiosità intellettuale, alla voglia di libertà. Anche per questo sul palco con me c’è un ragazzo di 24 anni, Gabriele Rossi, un pianista geniale con un milione di follower su Instagram. Non sapeva nulla degli anni Sessanta, ci si è immerso, e io ho fatto un po’ da Virgilio. Il modo in cui reinterpreta le musiche di quegli anni è struggente».

Che cosa significa per lei raccontare oggi quel decennio?
«Per me è un racconto di speranza. Quando ero ragazzo non avevo vissuto la Resistenza, ma il passaggio dalla dittatura alla libertà, dalla guerra alla pace, mi emozionava. Ora che viviamo un periodo così nero, abbiamo bisogno di un po’ di luce. Se non la troviamo nel presente, bisogna cercarla nel passato, perché ci conferma che è possibile. Nello spettacolo si ride, ci si commuove, si canta».
Oggi cosa vuol dire fare politica?
«Fare politica vuol dire sentirsi parte. Chi faceva politica nel dopoguerra voleva ridare la libertà all’Italia: le donne scese in piazza per il divorzio o per la maternità responsabile non volevano fare le parlamentari; gli operai volevano condizioni di lavoro più giuste e non pensavano di entrare in consiglio comunale. La politica è bella perché la può fare chiunque. E i ragazzi ce lo stanno insegnando: su Gaza, sull’ambiente… Superata una soglia di disumanità, scendono in piazza, reagiscono, si fanno sentire. E questo è senza alcun dubbio un importante segno di riconquistata umanità».
Da cronista, come vede l’Italia di oggi? Ha nostalgia per quella degli anni Sessanta?
«Non bisogna avere nostalgia perché si viveva peggio, c’erano meno diritti, le ingiustizie sociali erano ancora più clamorose di quanto siano oggi, si viveva di meno. Io non ho una nostalgia collettiva, ho nostalgia dell’atmosfera che c’era, della positività, del senso di responsabilità, della forza che avevano le istituzioni, i partiti, i sindacati, le persone che si sentivano in dovere di associarsi».

È per questo che ha deciso di andare in teatro?
«Sì, perché in teatro c’è una fisicità di cui abbiamo bisogno. Io temo che la società digitale, la società dei social ci stia costruendo una specie di armatura di solitudine e vorrei che trovassimo il modo di rompere questa armatura. In teatro puoi intessere una relazione con le persone che ti sentono vicino, come nei concerti. Oggi si vendono meno dischi, ma si va molto ai concerti perché evidentemente nella società digitale c'è un bisogno di fisicità. Il teatro e la musica restituiscono questa fisicità. E infatti hanno molti meno elementi di crisi rispetto ad altri linguaggi».
Crisi che caratterizza il suo amato cinema?
«È vero, ma devo dire che ancora c’è una forza narrativa del cinema che non è identificabile con altre forme. Io soffro quando vado al cinema perché vedo la gente che accende il telefonino, che parla, che mangia praticamente pranzi, colazioni. Il cinema è un rito, è un rito che ha una sua sacralità. Io vado al cinema perché voglio stare da solo con la storia che mi viene raccontata e questo si sta un po'perdendo».
Come giudica lo stato di salute del cinema italiano?
«Credo ci sia tanto talento, per fortuna questo è nel nostro DNA da sempre, siamo capaci di raccontare per immagini. A Robert De Niro, l’altro giorno, ho chiesto che cosa era stato il cinema italiano nella sua vita e lui mi ha detto Fellini, Antonioni, Rossellini. Il problema non è il talento, sono le condizioni produttive, si sono fatte molto difficili».
Lei è abituato ai palchi da sempre, ma calcare invece il palcoscenico di un teatro deve essere diverso dal farlo da politico o da giornalista?
«La differenza è che devi raccontare una storia tutta intera e devi cercare di trasmettere emozioni. In fondo se penso alla mia vita ho sempre fatto la stessa cosa, ho sempre cercato di raccontare, di trasmettere le cose in cui credevo a chi leggeva o a chi vedeva o a chi seguiva».
Una necessità di raccontare a cui non rinuncia?
«Raccontare permette di non dimenticare e di dire quello che accade. Quante cose abbiamo perduto purtroppo, le edicole, i cinema chiudono, i negozi, le librerie. Sembra che ci vogliano tenere chiusi a casa con il cellulare in mano. E come fare a ribellarsi, andare a teatro? Con le parole, con la bellezza delle parole che rompono le catene. Non ho mai conosciuto altro che rompa le catene con tanta forza come le parole».
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