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IL COMMENTO AL VANGELO

La lezione del lebbroso: gratitudine e riconoscenza

Luca racconta di un samaritano guarito da Gesù che torna a ringraziare. La parabola invita a riflettere sul valore del gesto consapevole e sul rapporto autentico con gli altri, come segno di apertura e umanità

Don Paolo Arienti

12 Ottobre 2025 - 05:05

La lezione del lebbroso: gratitudine e riconoscenza

Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati.
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

(Lc 17,11-19)

Domenica scorsa Luca ci aveva posto dinanzi una domanda cruciale, la stessa che gli apostoli stavano ponendo a Gesù: come possiamo aumentare la nostra fede? Con atteggiamento spiazzante Gesù aveva concluso che uno degli ingredienti centrali del credere è la gratuità del servizio, quell’inutilità senza guadagno che tanto stride con la cultura nella quale siamo immersi.

Nel brano che oggi le comunità cristiane mettono al centro del loro convenire, viene ripreso un altro aspetto della fede: l’obiettivo ora è sul coraggio di chiedere, sulla disponibilità a rompere il muro di isolamento che circonda chi è nel bisogno e, soprattutto, nella consapevolezza della riconoscenza.

Il racconto lucano è appesantito dall’identità dell’unico lebbroso che comprende di dover tornare a ringraziare: si tratta di uno straniero, allusione esplicita al cuore indurito degli interlocutori di Gesù, quei Giudei che possedevano sì gli strumenti della vita secondo Dio, ma le stratificazioni dalla supponenza religiosa aveva reso a volte ciechi proprio davanti al cuore della fede.

Gesù mette così in evidenza un nucleo formidabile della vita che ha fede, non solo una fede religiosa, teologica, ma anche una fede esistenziale umana, nella vita e nel suo senso più pieno. Rimanda ad un atto profondamente umano, ma mai scontato: quello della gratitudine, del saper riconoscere che non è sempre il nostro ombelico ad essere il cuore del mondo. La psicologia parla di narcisismo, ad indicare la spasmodica e sistematica esaltazione dell’“io” sul “noi”, sul “tu”, sulle cose della vita: tutto prende valore solo se lo posso afferrare, manipolare ed impiegare secondo il mio feeling. Ne fanno le spese le dimensioni più sacre della vita stessa, come l’amore, ridotto a volte a usa e getta di affetti ed emozioni, le relazioni con i più fragili, a volte segnate dall’esercizio meschino della prepotenza, il rispetto della vita, spesso calpestata perché ideologie e vendette si installano nel cuore di chi può, ma non vuole aprire gli occhi. Duccio Demetrio scriveva anni fa che l’ingratitudine, quel sentimento di chiusura e di sfruttamento che diviene struttura di pensiero e di azione per molti, è una evidente e diffusa malattia sociale. Certo, esistono tantissime ragioni perché ci si lamenti e addirittura si diffidi dell’altro: le proteste inascoltate di questi giorni con il loro grido contro l’ingiustizia, l’infiltrarsi della violenza gratuita anche nelle manifestazioni più sacrosante, la manipolazione che il sacro subisce spesso per interesse… quanto ci fanno dire: è inutile, meglio farsi i fatti propri, meglio non darsi pensiero e starsene in casa! La gratitudine invece ha a che fare con un cuore sveglio e con un’intelligenza che sa amare la verità: perché per dire grazie occorre saper vedere, e vedere oltre noi stessi, restituire consistenza all’altro e non restarsene chiusi nel piccolo orto del nostro essere perfetti e infantili.

Se questi meccanismi sono facilmente identificabili nei potenti della terra o in qualche sceneggiatura di film, più sottile e pericolosa è forse la lotta tra gratitudine ed ingratitudine che si combatte nel nostro cuore, tra le mura domestiche, nelle nostre comunità. Saper ritornare alle persone che ci hanno regalato tempo e attenzione, saper rendere grazie (a Dio, agli uomini, alla vita) perché qualcuno ci ha gratuitamente voluto bene… sembra cosa rara. O meglio: non si vede quasi più. Le macerie non sono solo quelle fisiche e terribili di Gaza e di altre città e villaggi distrutti dalla guerra: sono anche le macerie di cuori induriti che mancano di elasticità vitale, quella che si contrae e si distende per consentire il flusso della vita. Il cammino di quel lebbroso è in fondo il cammino profondamente umano di una vita: dentro ci sono tutti i suoi ingredienti, dalla richiesta alla condizione di debolezza, sino ad un incontro amante e al ringraziamento. Se potessimo assumere questa parabola, questi movimenti, come dinamismo del nostro esistere, più gentilezza e più verità vedremmo tra di noi. E la storia continuerebbe a cambiare nell’orizzonte della fede. Sì, perché la gratitudine suppone fede: fede che l’altro non mi inganni, fede che il bene sia la luce vera del vivere. Su queste questioni nessuno è messo al sicuro: a tutti serve provare e riprovare, ovvero buttarsi e crederci. E questa è fede.

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