L'ANALISI
24 Settembre 2025 - 05:10
Giulio Scarpati durante le riprese presso l’azienda agricola Ronchi di Fiorenzuola d’Arda
CREMONA - Un giovanissimo Giulio Scarpati e Antonio Latella sono stati, nel lontano 1994, Oreste e Pilade nello spettacolo Ifigenia in Tauride per la regia di Massimo Castri e con una straordinaria Anna Maria Guarnieri: «Che tempi e che teatro il Ponchielli, uno di quei luoghi in cui, quando arrivavi, ti sentivi accolto con calore e affetto. Altre tournée, quando anche in piazze piccole poteva capitare di fermarsi qualche giorno, e allora potevi scoprire città bellissime, come Cremona»: lo racconta lo stesso Scarpati, che venerdì sera alle 20.30 sarà al cinema Filo per l’anteprima del docufilm Le stanze di Verdi, prodotto da Giorgio Leopardi, con la regia di Riccardo Marchesini e a cura di Pupi Avati.
Cosa l’ha convinta del progetto Le stanze di Verdi?
«Io amo mettermi alla prova. Non avevo mai fatto un docufilm. Il progetto che mi ha presentato l’amico Leopardi mi è parso subito interessante».
Perché?
«Perché mi permetteva di conoscere meglio la figura di Verdi, ma soprattutto conoscerlo attraverso i luoghi in cui ha vissuto o semplicemente è passato. Siamo partiti da Piacenza, dove nella finzione io mi trovo a recitare. Poi, improvvisamente, sono attratto da una gigantografia di Giuseppe Verdi su un palazzo adiacente al mio albergo e chiedo informazioni al portiere, avendo letto sui giornali della casa del musicista in vendita. Il portiere mi mette in contatto con l’avvocato Marco Corradi, ex campione di rugby, che sa tutto della vicenda e della vita del maestro. L’avvocato Corradi mi carica a bordo della sua Jaguar d’epoca e mi conduce in un viaggio alla ricerca di luoghi cari al musicista, tra Piacenza, Parma e Milano, ma anche a Busseto e nella villa di Sant’Agata. Il tutto in un’atmosfera a suo modo magica».
Cosa ha scoperto di Verdi che l’ha colpita?
«Innanzitutto ho scoperto il Verdi non musicista: il Verdi agronomo, appassionato di agricoltura, ma soprattutto un imprenditore agricolo all’avanguardia, fra i primi a usare macchine per coltivare i campi. Poi le tante azioni di beneficenza a favore dei musicisti. Tutto questo è emerso visitando i luoghi, incontrando le persone, raccogliendo testimonianze di chi tiene viva la memoria del Cigno di Busseto anche nelle cose più minute e quotidiane, come i luoghi dell’infanzia e della gioventù e, ovviamente, la villa di Sant’Agata. Le stanze di Verdi mi ha chiesto di non recitare».
Dire questo per un attore può sembrare compromettente?
«Non lo è. Il mio ruolo è quello di un viaggiatore un po’ onirico che viene guidato nei luoghi verdiani, che incontra persone e che, attraverso le relazioni che instaura, riesce a scoprire aspetti poco noti, almeno per me, di Verdi. Ho incontrato chi guida le istituzioni volute da Verdi, come la casa di riposo per musicisti, chi dirige il Conservatorio Verdi a Milano, oppure chi si occupa della casa museo a Busseto. Nella relazione con queste persone ho dovuto dimenticare la recitazione, ma far leva sulla mia innata curiosità per ciò che non conosco e lavorare sul piano della condivisione di una comune passione: Verdi e la sua musica, ma anche la sua vita profondamente legata al territorio in cui era nato. Credo che questo abbia fatto la differenza anche nel dare senso alla mia presenza d’attore, grazie all’entusiasmo di Leopardi e alla sceneggiatura di Tommaso Avati e Luca Pallanch, liberamente ispirata al libro di Marco Corradi Verdi non è di Parma (Persiani Editore), un’opera che ha aiutato a mappare i luoghi e le storie legate al Maestro. Mediare l’essere attore con le testimonianze delle persone che, di volta in volta, ho incontrato mi ha permesso di fare una sorta di reportage in cui la realtà si amalgama bene con la costruzione di un testo cinematografico».
Non è nuovo a esperienze simili: fra l’altro, rimanendo in terra cremonese, è stato protagonista nel corto Il padre di mia figlia di Carlo Alberto Biazzi.
«Anche in quel caso la sceneggiatura di un autore come Sergio Pierattini, ma anche l’amicizia con Franco Freda, che mi ha parlato con toni di vera ammirazione di Carlo Alberto Biazzi, hanno fatto sì che accettassi con grande piacere questa produzione piccola, ma interessante. Mi piace l’idea di mettermi al servizio di giovani autori quando hanno talento, e poi la sceneggiatura di Pierattini era un piccolo gioiello. A un certo momento, mi viene da dire, che a una certa età cerchi di regalarti strade insolite, progetti magari inusuali, proprio per il piacere di farli e per la voglia di metterti alla prova. È quanto ho fatto con il reading dedicato a Pascoli, liberamente ispirato a un libro di Giuseppe Grattacaso, offrendo una lettura ben lontana dal Pascoli piagnucoloso a cui siamo abituati».
Quanto deve alla popolarità raggiunta con la televisione questa sua attuale libertà di scelta?
«Il cinema prima e poi la televisione mi hanno dato l’opportunità di essere molto conosciuto. Con Un medico in famiglia e ora con Cuori sono passato dall’indossare il camice bianco del dottore a vestire i panni di un ricoverato sensitivo. Non so se ci ho guadagnato. Battute a parte, la tv, soprattutto, è arrivata in un momento di mia maturità formativa, e la popolarità che mi ha dato è stata una risorsa che ho saputo tenere a bada, senza montarmi la testa. Credo che tutto ciò mi sia stato possibile perché avevo già una sorta di ‘corazza’ d’attore. Altrimenti, diversamente, rischi di montarti la testa. È nel mio stile rimanere con i piedi ben saldati per terra. La tv mi permette di fare in teatro L’idiota di Dostoevskij e, grazie al mio nome, posso far conoscere un autore importante come Dostoevskij al grande pubblico, quello che non era nato ai tempi degli sceneggiati in bianco e nero. Anche questo è un lusso che ti concede la notorietà televisiva».
E non da ultimo, regalarsi Le stanze di Verdi?
«Si tratta di un progetto che devo alla forza contagiosa di Leopardi, produttore novantenne, innamorato del cinema e con l’energia di un ragazzino, che ha messo insieme uno staff veramente prezioso e appassionato con cui ho lavorato benissimo».
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