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IL COMMENTO AL VANGELO

Il ‘mi ami?’ di Gesù è una ripartenza

Il dialogo con Pietro acquista un significato particolare: non una nostalgia del passato, ma un invito alla responsabilità e all’amore radicale

Don Paolo Arienti

04 Maggio 2025 - 05:05

Il ‘mi ami?’ di Gesù è una ripartenza

In quel tempo, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla. Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri. Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti. Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».
(Gv 20,19-31)

La lettura di un brano come quello odierno, a ridosso dell’elezione di un nuovo vescovo di Roma, il papa, suona suggestivo. Negli occhi abbiamo ancora la straordinaria risonanza del funerale di Francesco, prima ancora del suo modo di lasciare questo mondo in estrema coerenza con uno stile che tutti abbiamo conosciuto. Ad un’altra persona, ad un’altra storia tra qualche ora verranno rivolte le parole contenute nel vangelo di Giovanni: mi ami più di questi? Seguimi… il dialogo è uno dei più suggestivi del periodo pasquale di Gesù: lui si rende visibile – addirittura in carne ed ossa -, provoca i suoi amici a non darsi per sconfitti dopo una pesca disastrosa, mangia con loro addirittura un po’ di pesce. Tutti dispositivi che Giovanni impiega perché il vangelo non si concluda con un drammatico amarcord, ma la fiducia dei discepoli di ogni spazio e tempo sia radicata nel corpo del risorto.

Non si tratta di avere a che fare con le movenze di un fantasma; non si tratta di cedere ad una comoda illusione. Certamente la fede non è rimossa o sostituita frettolosamente con gesti fisici che metterebbero tutto a posto. Anzi! Più ci si affida al crocifisso risorto, più occorre guardare non indietro, ma in avanti, con l’attitudine non della fuga, ma della responsabilità, del coinvolgimento, del cammino anche oscuro. Sarà sempre una questione di amore, nulla di meno di questo. Solo se si amano i gesti giubilari di Gesù, solo se ci si innamora della sua parola di libertà, solo se vale qualcosa di prezioso sedere alla mensa dell’Eucaristia… solo allora l’esperienza della fede, anche se piccola, avrà un senso, sarà fondativa di una vita e non la molleremo più.

Certo l’amore può raffreddarsi, infreddolirsi ed ammalarsi, ma il vero amore è più forte anche delle affezioni negative che la fragilità umana porta con sé: è più forte anche della violenza e della paura. Gesù nel periodo successivo alla sua morte in croce educa i suoi discepoli a tutti questi riverberi: li costringe a superare se stessi, ed in particolare il senso di fallimento e di vuoto che inevitabilmente sperimentiamo davanti ad una storia spezzata, ad un grande sogno di cui percepiamo l’equivoco; li fa sedere a mensa, ovvero li spinge alla condivisione più forte, quella gomito a gomito, dove l’estraneità e la lontananza spirituale possono venire sconfitte; offre loro una guida, una specie di sacramento che faccia da cardine: sarà Pietro e i tanti Pietro che gli succederanno, dentro pagine anche burrascose della storia. Perlomeno non più burrascose della pagina che siamo costretti a subire noi in questa epoca di grandi punti interrogativi.

Il tempo pasquale (quello liturgico che connette Pasqua a Pentecoste e quello di ogni giorno che succede all’annuncio delle donne) è una continua palestra giocata sul rapporto vero con Gesù, non solo morto, non solo morto per amore, ma il vivente, il primo salvato e il salvatore: colui che rende possibile alla fedeltà di Dio di divenire storia non smentibile. Ogni comunità cristiana, qualsiasi sia la fede ‘media’ che la contraddistingue, è costantemente richiamata a questa presenza di spirito: qui ed ora, con-corporeo con noi, Gesù continua a parlare, sedere, mangiare, condividere, inviare e sostenere. E a qualcuno in particolare è chiesto di «amare di più», ovvero di assumere più responsabilità e donare la vita in forma ancora più radicale.

Non si tratta di conteggiare i gradi di potere o le logiche di dominio: questo lo fa il mondo, dalla roulette del toto-conclave alla visione solo politico-economica di chiese, società, esseri umani. Si tratta piuttosto di scorgere, sotto torri, cupole e strutture anche massicce e un poco arrugginite, il senso dell’amore, la sua forza e la sua profezia. Anche in un albero rinsecchito può tornare a circolare linfa vitale, se una radice la immette, se un calore la riattiva. Così è anche della comunità cristiana: quel ‘mi ami?’ è come una ripartenza, una rimessa in circolo della linfa vitale, l’unica energia che può giustificare anche gli apparati e rischiare di confondersi con il potere mondano.

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