L'ANALISI
28 Febbraio 2025 - 14:28
CREMONA - Non c’è scampo alla pulce nell’orecchio, ovvero a quel sospetto che ti ronza in testa e rischia di ricondurre ogni cosa a quel pensiero ossessivo che tutto trasfigura e trasforma realtà e relazioni fino a farti perdere lucidità e consapevolezza. Per Georges Feydeau La pulce nell’orecchio è il sospetto di Raimonda (Marta Malvestiti) di essere tradita dal marito Vittorio Emanuele (Christian La Rosa) che da qualche tempo la trascura.
Da qui l’dea di far scrivere una lettera anonima dall’amica Luciana (Francesca Osso) per un appuntamento all’Hotel Feydeau. Se il marito si presenterà la tendenza al tradimento sarà dimostrata. È questo il pretesto che nella pièce di Feydeau, messa in scena mercoledì e ieri sera al Ponchielli, smuove tutta una serie di intrecci, equivoci, tradimenti presunti e reali che affollano le stanze dell’hotel.
Un pretesto si diceva che Carmelo Rifici prende alla lettera e non solo perché rispetta il testo con tagli importanti e funzionali che cercano di asciugare la trama, non sempre sciogliendola. Ma il regista fa di più: riconduce tutto a un gioco in cui leggerezza e un pizzico di inquietudine coesistono, in cui il sospetto e la passione la fanno da padroni e gestiscono in maniera concitata e imprevedibile relazioni e reazioni. Non è un caso, dunque, che Rifici abbia affidato allo scenografo cremonese Guido Buganza la realizzazione di grandi cubi di gommapiuma che gli attori spostano, su cui rimbalzano, a loro volta coloratissimi pupazzi e marionette nei costumi di Margherita Baldoni.
C’è qualche cosa di infantile: c’è il gusto di saltare sui materassi, di fare le capriole e nascondersi come fanno i bambini nelle loro camerette, inventandosi storie e intrighi che sono solo nella loro immaginazione. Per questo l’hotel del libero scambio è solo evocato e finisce con l’essere una sorta di camera dei giochi in cui tutto è possibile.
Come nelle comiche la musica – eseguita dal vivo dagli stessi attori – sottolinea i momenti più esilaranti, le cadute, i gesti, gli scontri e gli incontri su quella scena mobile che gira e sembra una sorta di giostra delle emozioni e delle passioni. A fare – in un certo qual modo – da commentatore interno di straordinaria innocenza su quanto accade è Camillo, personaggio che somiglia un poco a Charlie Chaplin interpretato da Tindaro Granata, caratterizzato da un difetto di pronuncia, che è risolto solo da un palato d’argento (una protesi, diremmo oggi) che gli permette di acquistare il linguaggio.
Ma questo acquisto segna, si crede, la perdita dell’innocenza, il rischio che dal gioco si passi al dramma. Ed è in fondo solo quando Camillo perde il palato che il rischio di vendetta per gelosia, si trasforma in un vorticoso rincorrersi e scontrarsi che suscita allegria, risate, ma anche – complici le belle musiche di Zeno Gabaglio – una sorta di amara consapevolezza di come la follia d’amore possa scaturire in una perdita di sé stessi. Sul finale eccoli lì, in piedi, statue e figure di quella giostra dell’amore della follia che il pubblico applaude con il giusto calore, soddisfatto di uno spettacolo intelligente e bello.
La bellezza sta in un cast di attori capaci di tenersi in equilibrio fra macchietta, caratterizzazione dei personaggi e credibilità del fare e del dire, un gruppo di interpreti che oltre ai già citati è composto da Giusto Cucchiarini, Alfonso De Freese, Giulia Heathfield Di Rienzi, Ugo Fiore, Marco Mavaracchio, Alberto Pirazzini, Emilia Tiburzi e Carlotta Viscovo, attori che non si risparmiano, sono tasselli di una macchina comica che funziona, diverte e, perfino, commuove. La pulce nell’orecchio di Feydeau – nell’elegante e intelligente versione registica di Rifici - è la riprova che un teatro di tradizione si può fare, esiste senza necessariamente parere polveroso e di questo bisognerebbe saper tener conto per le prossime stagioni, musical permettendo.
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