L'ANALISI
20 Febbraio 2025 - 09:55
CREMONA - «Stasera si va a teatro a vedere Kohlhass di Marco Baliani». L’adolescente 17enne con tono ritroso: «vengo, anche se a me il teatro non piace». La sfida è chiara. Se non piacerà, avrà di che difendersi dalle prossime incursioni paterne. Palco 13, primo ordine destro. Seduto, il metro e 85 di altezza fa fatica ad essere contenuto, lo sguardo è quello che dice: «Stiamo a vedere». L’aspetto più interessante è vedere in sala chi c’è dei compagni di scuola. «A teatro ci si va per vedere chi c’è», commenta.
Là lontana, sul palco una sedia e null’altro. Martedì sera al Ponchielli è andata in scena la storia del teatro, non tanto perché lo spettacolo ha trentacinque anni di storia, ma perché Marco Baliani con Kohlhaas ha portato indietro le lancette del tempo, ci ha regalato il fascino del racconto, ha offerto il grado zero del teatro, il rito dei nostri progenitori intorno a un fuoco ad ascoltare storie che dessero loro il senso del tempo e dell’eterno.
Questo ha fatto Baliani martedì sera al Ponchielli, questo ha fatto con Kohlhaas, (re)inventare il teatro di tradizione, l’unica novità che la scena italiana sia riuscita a elaborare negli ultimi quarant’anni, punto di partenza per Marco Paolini, Ascanio Celestini, Laura Curino e via discorrendo. Così il racconto di Von Kleist che narra di Michele Kohlhaas, mercante di cavalli, che subisce ingiustizia dallo Junker Wenzel von Tronka e cerca giustizia per quei suoi due bellissimi morelli che gli sono stati sottratti, per il servo maltrattato, una giustizia che non arriva.
È lì che scatta la tentazione di farsi giustizia da sé per ristabilire l’equilibrio di quel cerchio che sta nel suo cuore, che è il recinto dei suoi cavalli, che è il senso della vita, della legge che è uguale per tutti. In realtà Kohlhaas si ritrova suo malgrado a mettere a ferro e fuoco la Germania, si ritrova a sovvertire l’ordine e a cadere poi sotto la legge imperiale che premia il potere e non i giusti. Ma come può dirsi giusto colui che per una giustizia ideale finisce col farsi ingiusto.
Questa la vicenda, ma l’incanto è lì in quella sedia su cui Baliani sta seduto, illuminato, al centro di un buco nero, è lì che racconta. I suoi gesti diventano immagini, sollecitano la nostra immaginazione. Li vediamo i morelli dalla criniera lucida, veloci e scattanti, le vediamo le città in fiamme, le immaginiamo le cavalcate di Kohlhaas e i suoi seguaci, lo vediamo il patibolo su cui il mercante conclude la sua vita. Parole e corpo, pochi gesti, il battere sul palco i piedi per simulare il trotto dei cavalli, ma magicamente e grazie all’attore le parole si fanno carne, si fanno immagini, il mercante di cavalli è lì con noi, nel buio del teatro, su quella sedia si racconta la sua storia che è una storia che ci appartiene.
In teatro nessuno fiata. Marco Baliani è lì, è piccolo, piccolo, quasi indifeso, quasi ingoiato dal buio eppure riluce, le sue parole sono potenti, la sua storia entra nei nostri occhi e nei nostri cuori. L’adolescente di 17 anni ha il volto appoggiato alla balaustra del palco, è là sul palco, non si muove, è incantato. Non è più nel palco 13 primo ordine a destra, ma è con Michele Kohlhaas, Baliani se l’è portato via.
Alla fine l’applauso è potente e interminabile, è un vero abbraccio all’attore, al teatro. «Bello, papà. Ma perché a scuola non ci portano a vedere questi spettacoli, invece che monologhi noiosissimi sulla fisica?»
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