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IN SCENA AL PONCHIELLI

«È una crisi oltre la coppia»

Prosa: questa sera ‘Scene da un matrimonio’ diretto da Vogel. «C’è molto Bergman, ma in chiave attuale»

Nicola Arrigoni

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narrigoni@laprovinciacr.it

14 Gennaio 2025 - 11:26

«È una crisi oltre la coppia»

A lato, una scena della pièce tratta dal lavoro di Ingmar Bergman. Il regista Raphael Tobia Vogel nel riquadro

CREMONA - Uno dei filoni del cartellone della prosa 2024/2025 del Ponchielli è legato al rapporto di amore e odio con i testi audiovisivi. Lo si è visto con il musical Mare fuori, lo si vedrà con l’adattamento scenico del film Perfetti sconosciuti e con vertigine testuale e cinematografica si concretizza stasera (ore 20.30) con Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman, pièce che richiama il film del cineasta svedese del 1973, ma richiama anche la miniserie tv con i medesimi attori: Liv Ullmann nel ruolo di Marianne ed Erland Josephson in quello di Johan. Per quanto riguarda l’Italia non si può non ricordare l’allestimento del 1997 che vedeva nei ruoli dei coniugi in crisi Gabriele Lavia e Monica Guerritore, anch’essi al declino del loro sodalizio artistico e matrimoniale. Questa sera al Ponchielli a interpretare i due ruoli saranno Fausto Cabra e Sara Lazzaro, diretti da Raphael Tobia Vogel di cui si ricorda Costellazioni in scena l’anno scorso, anche in quel caso un racconto di coppia, minato dal tempo e dalla malattia.

Sara Lazzaro e Fausto Cabra in Scene da un matrimonio(©Luca Condorelli)

La prima curiosità è legata all’utilizzo dell’adattamento teatrale firmato da Alessandro D’Alatri, regista caro a Cremona per avervi girato La febbre e prematuramente scomparso.
«Se i cremonesi conoscono D’Alatri, sanno anche la sua capacità di indagare con eleganza e poesia le relazioni umane. L’adattamento di Alessandro D’Alatri del testo di Bergman è stato un primo tassello per la costruzione della drammaturgia che si è nutrita anche del testo originale, oltre che, ovviamente, dalla visione del film e della serie tv».

Ma perché ricorrere a D’Alatri?
«Avevo bisogno di un testo che ci avvicinasse nel tempo alla crisi di quella coppia. Pièce e film sono del 1973, anno in cui è forte il problema del divorzio e della fine di una relazione, così come l’autonomia della donna. Non è un caso che i due protagonisti tornino da teatro colpiti dalla visione di Casa di bambola di Ibsen, in cui Nora lascia il tetto coniugale per costruirsi un’altra via».

Da Ibsen passando per Bergman per andare dove?
«Per cercare, attraverso le parole di un maestro del cinema e della scrittura, di indagare nei rapporti relazionali oggi. In realtà in questo lavoro c’è tanto, tantissimo dell’originale, la scansione per scene, la voglia di capire perché si ha la tentazione di nascondere la spazzatura sotto il tappeto. Fino a che tutto il non detto è destinato a emergere quando arriva un punto di rottura che non permette di mentire più, che mette in luce la crisi dei singoli, ancora prima di quella della coppia».

Ma tutto questo ha una sua universalità, un valore che va al di là del tempo in cui la pièce è stata scritta?
«Credo di sì, ma è parso necessario avvicinarla a noi. Certa indipendenza della donna ora è acquisita, ma quello che forse non si sa è come molti rapporti di coppia, fra i miei coetanei, nascano sotto il tacito o esplicito accordo, che la possibilità di andare a letto con un altro partner non sia così impossibile e magari non porti neppure a una separazione. Sono passati oltre cinquant’anni dal film, ma i fondamentali sono ancora validi perché appartengono alla natura umana».


Chi sono i Johan e le Marianne del XXI secolo?
«Per me hanno il volto e i corpi di Fausto Cabra e Sara Lazzaro. Fausto oltre ad essere un bravo attore è un regista, Sara è una interprete sensibile. Fra i due c’è amicizia e intesa, non sentimentale, ma quel feeling che deriva loro dall’aver lavorato insieme e avere un rapporto anche fuori dalla scena. Su quello abbiamo lavorato, su quel terreno comune. Ho lasciato loro molta libertà nel fare proprio il testo e i personaggi. Poi come sempre accade quando lavoro, mi ritrovo a tirare le fila e a chiedere una sorta di rigore e credibilità, costruita sulla consapevolezza di ciò che si fa e si dice in scena».

Questo accade nel suo Scene da un matrimonio?
«Mi auguro di sì, il pubblico si riconosce e partecipa. Lo fa anche in maniera, a volte, imprevedibile, ridendo in punti che noi non avremmo mai reputato ilari. La scenografia di Nicholas Bovay mi ha regalato una scena apparentemente realistica ma che mette in evidenza la natura claustrofobica del rapporto fra Marianna e Giovanni. Ho immaginato che il ruolo dello spettatore fosse quello di voyeur, di osservatore non visto di una intimità di un disorientamento dell’individuo che appartiene ai personaggi, ma, forse, anche a noi che guardiamo. In superficie ci sono i temi di una crisi di coppia, ma credo che Bergman dica di più e metta in scena il disorientamento del nostro stare al mondo, l’incapacità di sapere di noi e conoscere realmente l’altro. In tutto ciò gli attori lavorano con estrema fisicità e intensità e noi stiamo lì a guardarli con un senso di impotenza e a tratti riflettendoci in essi».

Ha intenzione di sposarsi?
Sorride: «Sono felicemente innamorato e vivo una bella relazione, prima o poi accadrà, forse. Ma si sa che il matrimonio è la prima causa dei divorzi».

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