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TRA EITCA ED ESTETICA

‘The Fake Art. L’inganno del fascismo’, il potere dell'architettura

Tito Giliberto presenta in biblioteca il saggio sull’urbanistica in epoca littoria, che si abbina al lungometraggio ‘L’Era antifascista’ che verrà proiettato il 10 gennaio alle 17 in Biblioteca Statale

Nicola Arrigoni

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narrigoni@laprovinciacr.it

04 Gennaio 2025 - 10:14

‘The Fake Art. L’inganno del fascismo’, il potere dell'architettura

La Galleria 23 marzo nel riquadro, dietro Palazzo dell'Arte

CREMONA - «Milioni di automobilisti passano per il casello autostradale di Melegnano, ma nessuno alza gli occhi a Est. Altrimenti si accorgerebbe di un insolito Arco di Trionfo che domina l’ex fabbrica di armi chimiche voluta da Mussolini – scrive Tito Giliberto, autore di Fake Art. L’inganno del fascismo -. L’arco di trionfo contiene la cisterna d’acqua dello stabilimento. Una costruzione industriale, dunque. Dissimulata e abbellita, per così dire, nella sua sinistra maestosità, da una colossale aquila di cemento a bassorilievo un po’ in stile nazista».

Il volume si abbina al lungometraggio L’Era antifascista che verrà proiettato il prossimo 10 gennaio (ore 17) in Biblioteca Statale, nell’ambito della presentazione del volume del giornalista, volto storico del Tg5 e di TgCom24. Attento alla storia e animato dalla vocazione alla divulgazione, Giliberto nel doppio racconto video e cartaceo va in cerca del non detto dell’arte fascista, cerca di smontare l’apparente novità e coerenza estetica della retorica architettonica del littorio, mostrando come l’ispirazione razionalista sia solo tale e come dietro a una monumentalità essenziale e che ha origine dalla Bauhaus ci sia una sorta di inganno.

Tito Giliberto

Il volume, come il documentario, si articola in una serie di capitoli che intendono mettere in evidenza ciò che sta dietro la grandeur dell’architettura e urbanistica fascista. È questo il caso dell’inganno del Colosseo Quadrato, ovvero il palazzo dell’Eur che con la sequela di archi voleva esaltare la creatività e l’inventività italica. L’arco è un’invenzione italiana, peccato che dietro il Colosseo quadrato dell’Eur si celi un inganno e osserva l’autore: «Sotto gli archi, nascosta alla vista, c’è una struttura di cemento armato. Come in qualsiasi edificio brutalista. Un reticolo di cemento armato, dunque, sostiene il peso del palazzo. Non gli archi. Dunque, tutti quegli archi del Colosseo quadrato non servono a niente. Una truffa per gli occhi a scopo propagandistico».

Che dire poi dell’edificio fallico dell’ex Casa del Fascio ad Asti, edificio datato 1934 che visto dall’alto con i suoi due bracci disegna la grande M di Mussolini, ma vista dall’antistante piazza Campo del Palio appare come un enorme fallo che mette in imbarazzo gli astigiani e fa fare più di un sorrisino. Ma, in fondo, anche il culto della virilità era un must dell’uomo fascista e del regime. Il volume e il lungometraggio raccolgono le testimonianze e interviste di storici, architetti e giornalisti che dialogano con l’autore in cerca di ciò che sta dietro l’architettura di regime e ovviamente la costruzione del consenso. Intervengono infatti Adachiara Zevi, architetta, storica dell'arte, presidente della Fondazione Bruno Zevi; Ferruccio De Bortoli, ex direttore del Corriere della Sera e presidente onorario del Memoriale della Shoah a Milano; Giuseppe Pedroni, Fabrizio De Sanctis dell’Associazione Nazionale Partigiani Italiani; e Raffaella Barbierato, direttrice della Biblioteca Statale di Cremona.

Nel gioco di ciò che si vede e ciò che è sommerso si sviluppa il racconto del film come del libro. A De Bortoli spetta raccontare il rimosso della stazione centrale di Milano, magnificente edificio fascista che accoglie chi arriva nel capoluogo lombardo e in cui sono ancora evidenti i simboli del regime, compreso il ritratto del Duce impegnato nella battaglia del grano. Al tempo stesso al binario 21 – dove oggi c’è il memoriale della Shoah – partivano i treni merci per i lager nazisti, in un luogo appartato, ‘sotterraneo’ della stazione, lontano dagli occhi e dai cuori, verrebbe da dire. Ora quello spazio di dolore e morte è lì per ammonirci e ricordarci quello che è successo.

Il Colosseo Quadrato all’Eur (© Massimiliano)

De Bortoli narra la storia non solo del memoriale, ma anche di quello spazio, occultato alla buona coscienza degli italiani. E in questa prospettiva di mostrare ciò che non si vede, di dimostrare il volto ingannevole del regime, si inserisce come testimonianza di storia e di ferocia la vicenda di Jole Foà, la segretaria ebrea di Roberto Farinacci, che nel clima creato dalle reggi razziali scrive al suo datore di lavoro: «La mia coscienza è molto pulita. Non temo nulla. Sono ancora quella di ieri. Ma lei non mi deve scartare se vi è una ragione che la riguardi, voglia, come per il passato, esser sincero e come ho saputo comprendere, fino a privarmi di quanto più mi sarebbe stato caro, così saprò non chiederle, se questo è necessario. Mi ascolti però cinque minuti, e me lo dica lei».

È questa l’ultima lettera scritta da Jole Foà a Farinacci da cui emerge l’immagine di una donna disorientata, spaventata, ignara del destino che la attende, ma capace di avvertire una minaccia oscura, incomprensibile, incombente. Barbierato racconta la storia di Jole Foà e il richiamo a Farinacci, arrivato dal Ministero della cultura popolare, di sbarazzarsi della sua collaboratrice, il suo apparente tentennamento, la lettera scritta a Mussolini: «Lasciamo gestire la cosa, fidati di me… cercherò di farlo. Non posso licenziarla subito così. Una donna sola che poi non troverebbe lavoro». In questo passaggio sembra scorgersi un briciolo di umanità, ma poi ciò è smentito dall’affermazione: «io sono anche d’accordo a sopprimere tutti gli ebrei».

L’esito è che Jole Foà viene arrestata a Lanzo d’Intelvi nel dicembre 1943. Probabilmente viene intercettata e catturata mentre sta per scappare per la Svizzera. «La scheda segnaletica contiene poche informazioni: detenuta in carcere a Como. Trasferita nel campo di raccolta di Fossoli. Partita il 5 aprile 1944 per il campo di Auschwitz. Internata col numero di matricola 76799. Morta il 21 gennaio 1945. Pochi giorni prima della liberazione del campo», si legge nel libro. Una vicenda di assoluta verità e crudele disumanità che rileva il vero volto del regime e l’abisso degli ultimi anni del conflitto, nell’abbraccio mortale al nazismo.

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