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Galileo e Pio XII, misteri svelati oltre la storia

Intervista al vescovo Pagano, per 27 anni prefetto dell’istituzione. Nel libro ‘Secretum’ racconta di Papi, guerre, segreti e processi

Gianpiero Goffi

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redazione@cremonaonline.it

08 Luglio 2024 - 05:15

Galileo e Pio XII, misteri svelati oltre la storia

Monsignor Sergio Pagano, prefetto emerito dell’Archivio Apostolico Vaticano

CREMONA - Monsignor Sergio Pagano, 75 anni, barnabita, vescovo titolare di Celene (Spagna), è stato dal 1997 e fino a venerdì scorso prefetto dell’Archivio Apostolico Vaticano, che custodisce tutti gli atti e i documenti connessi all’attività della Santa Sede. Nell’Archivio, allora ‘Segreto’, lavorava ininterrottamente dal 1978, come vice-prefetto dal 1995. Il 5 luglio papa Francesco lo ha nominato assessore del Pontificio comitato di scienze storiche, mentre alla prefettura dell’Archivio ha destinato l’agostiniano padre Rocco Ronzani. Con il giornalista Massimo Franco, del Corriere della sera, Pagano ha da poco pubblicato, nelle edizioni Solferino, il libro-intervista ‘Secretum’: oltre 400 pagine di vicende ecclesiastiche e non solo, di 'misteri' svelati, di virtù e di vizi, raccontati con quella tensione alla verità che si addicono a un uomo di fede e a un cultore della ricerca storica. Genovese, monsignor Pagano era sabato a San Luca per la celebrazione di Sant’Antonio Maria Zaccaria, fondatore dei Barnabiti, cremonese di nascita ma la cui famiglia – ci ha ricordato – aveva origini nel patriziato genovese, e la cui vita fu bensì breve (morì a 37 anni) ma vissuta «in profondità». Prima della messa solenne, accompagnata dal Coro Polifonico cremonese diretto da Federico Mantovani, abbiamo incontrato monsignor Pagano nella sacrestia.

Quarantasei anni all’Archivio Vaticano, quasi trenta alla prefettura, da dove nasce il suo amore per la ricerca storica?
«Proprio dai Barnabiti. Da noi è vivo il culto delle memorie della nostra Congregazione, ma in genere l’interesse per la cultura ecclesiastica e laica. Abbiamo avuto astronomi, fisici, docenti universitari, studiosi di storia. Dunque l’amore per la ricerca l’ho appreso fin da giovane».

Nel libro racconta di qualche disagio nei primi anni in Archivio, ma, divenutone responsabile, è stato il promotore di un grande rinnovamento anche tecnologico...
«Sì, in effetti la luce elettrica (si temevano cortocircuiti e incendi che danneggiassero il patrimonio, ndr) era stata introdotta solo dieci anni prima che io arrivassi. Con me si è passati dalle vecchie macchine da scrivere a quelle elettriche, poi ai primi computer e all’addestramento di personale giovane. Oggi si lavora su computer di ultima generazione, con un Centro di elaborazione dati e un inventario digitalizzato completo».

L’Archivio prima si chiamava Segreto, adesso Apostolico. La ragione?
«In passato il termine non suscitava rimostranze. In latino ‘secretum’ significa separato, non nascosto. Poi sono arrivate richieste dagli Usa, ma anche dal Sudafrica, dove il latino lo si conosce poco. Papa Francesco ha domandato se si potesse cambiare la denominazione, e così si è fatto, nel 2019. Ma la sostanza non cambia. Anche perché l’unico Archivio Apostolico è appunto quello del Papa.

Un Archivio di archivi.
«Sì perché insieme agli archivi della Curia romana custodiamo circa seicento fondi versati dalla Camera apostolica, dalla Cancelleria. La parte più antica, che si trovava al Laterano, è andata perduta verso il 1000. Dunque i primi documenti datano dal 1100 circa, con alcune ‘reliquie’ del 700-800 dopo Cristo.

Un Archivio di fatti e misfatti, di luci ma anche di tenebre.
«Direi di luci e ombre della Chiesa, ma prevalgono le luci. Un patrimonio di testimonianze di quando la Chiesa era la cultura, un sistema di pensiero la cui importanza anche gli atei riconoscono. Le luci sono maggiori, ma le ombre ci sono e vanno valutate con obiettività storica. Quando Leone XIII inaugurò l’Archivio vaticano citò Cicerone per il quale prima legge della storia deve essere tutto il vero, non tacere nulla, non dire mai il falso. Noi seguiamo questa via. È vero che anche cardinali, vescovi e preti commisero peccati, misfatti, crimini. Vanno detti, ma anche contestualizzati, nell’ambiente e nel tempo, vanno capiti. Non si possono giudicare con i criteri di oggi i fatti di secoli fa».

Lei ha studiato il manoscritto del processo a Galileo?
«Giovanni Paolo II si stava occupando della revisione del processo, ammise che erano stati fatti errori. Nel 1979 istituì una commissione, e io venni incaricato di studiare gli atti. Dovetti effettuare le ricerche presso l’Archivio storico del Sant’Ufficio, allora chiuso, e ho pubblicato nel 1984 quello che riuscii a trovare. Poi il Papa volle il rinnovamento e l’apertura dell’Archivio del Sant’Ufficio, così potei ritornare e pubblicare nel 2009 un nuovo e più preciso volume sul processo a Galileo, con l’aggiunta di altre fonti».

Veniamo all’Ottocento, quando Napoleone trafugò l’Archivio.
«Nel 1809-1810 Napoleone sequestrò tutti gli archivi di Roma. Voleva creare a Parigi un Archivio centrale dell’Impero. Si comportò così anche altrove, facendo moltissimi danni agli archivi di tutta Europa. Il nostro è stato manomesso e classificato in modo arbitrario, alcuni faldoni furono dispersi. Caduto Napoleone, l’Archivio poté tornare ma con dei buchi insanabili, anche perché durante il tragitto, su carri, non c’era molta vigilanza, e molti documenti andarono perduti».

Poi il Risorgimento, l’unità d’Italia e la caduta del potere temporale.
«Nella Santa Sede il Risorgimento determinò uno iato, già dal 1861; poi con la presa di Roma, nel 1870, un altro strappo molto forte che Pio IX subì, e ne fu amareggiato, anche se aveva capito che il vecchio Stato pontificio non stava più in piedi. Avergli tolto Roma era per lui una ferita insanabile, si riteneva prigioniero e non volle più uscire dal Vaticano. In Archivio esistono le sue disposizioni al comandante dell’esercito pontificio, il generale Kanzler, di limitarsi a sparare qualche colpo ai ‘piemontesi’ solo per dimostrare che il Papa non si arrendeva ma subiva un’invasione. Con il passare del tempo i Pontefici hanno dato una valutazione diversa. Soprattutto Paolo VI ritenne provvidenziale la liberazione della Chiesa dal fardello del potere temporale (e monsignor Pagano aggiunge di avere studiato il «grandissimo» vescovo di Cremona Geremia Bonomelli, ndr)».

Con Pio X invece ci fu la ‘caccia’ ai modernisti.
«Si tratta di una pagina piuttosto ambigua della storia della Chiesa. Pio X aveva delle ragioni perché era in atto da alcuni un’eresia che toccava le Sacre Scritture e la stessa figura di Cristo. Ma purtroppo si avviò una rete di spionaggio che colpiva, anche diffamando, sacerdoti e laici ovunque si avesse qualche vago sentore di apertura alla modernità. Penso allo scrittore Antonio Fogazzaro, ma anche a don Angelo Roncalli, il futuro Giovanni XXIII, che come insegnante nel seminario di Bergamo aveva adottato il testo di ‘Storia della Chiesa antica’ di Louis Duchesne, il quale non nascondeva la verità su alcuni pontificati del passato».

Di recente è stata aperta alla consultazione la parte dell'Archivio relativa a Pio XII. Inevitabile la domanda sulla Shoah e sul silenzio del Papa.
«Pio XII aveva coscienza di quanto stava accadendo e del silenzio di cui era accusato. Ne parlò con alcuni ambasciatori e anche con monsignor Roncalli. È già uscito un libro di Andrea Riccardi, e ora ne sta per uscire un altro di Giovanni Coco sul ‘Mosaico dei silenzi’ di papa Pacelli. L’accesso alla documentazione fa meglio comprendere il contesto di quei silenzi. Certo, io penso che almeno dopo la guerra Pio XII avrebbe potuto dire una parola più chiara. Ma la sua era la prudenza del diplomatico. Di fronte al tiranno, aveva temuto di aggravare la situazione, come era accaduto in Olanda dove i vescovi cattolici avevano parlato contro il nazismo e la persecuzione degli ebrei. Non osò dire, ma attivò una carità enorme e nascosta verso gli ebrei, che gli venne da loro stessi riconosciuta».

A conclusione del suo libro si ha l’impressione di una visione realistico-pessimistica della storia umana, quella di «un continuo e disperato conato di vomito».
«È una espressione di monsignor Umberto Benigni (docente di storia ecclesiastica e ‘cacciatore’ di modernisti, ndr), molto pessimistica. Qualche volta non possiamo negare che la terra, che ci appare verde, in realtà sia rossa. L’uomo ha sparso tanto sangue e ancora oggi lo sparge. Questa storia, fatta salva la redenzione operata da Dio e le sue vie insindacabili, non è cambiata. L’uomo del Duemila è sempre l’uomo: uxoricidi, femminicidi, bambini uccisi, violenze, guerre continuano ogni giorno. È sempre Caino che uccide Abele. Non si può dare torto a monsignor Benigni».

IL CORO POLIFONICO OMAGGIA I BARNABITI

La messa solenne in onore di Sant’Antonio Maria Zaccaria presieduta sabato pomeriggio in San Luca, in una chiesa gremita, da monsignor Sergio Pagano, prefetto emerito dell’Archivio Apostolico Vaticano, e concelebrata da sacerdoti e religiosi cremonesi, è stata animata dal Coro Polifonico cremonese diretto dal maestro Federico Mantovani. Ricco e apprezzato il programma musicale eseguito, aperto dall’inno al Santo composto da Federico Caudana, seguito da parti della ‘Missa de Angelis’ in gregoriano e della ‘Missa brevis’ di Mantovani e, all’offertorio, dall’ ‘Ubi caritas’ dello stesso Mantovani. Alla comunione l’inno eucaristico ‘Adoro te devote’ nella composizione (con alternanza del gregoriano) del cremonese Antonio Concesa, seguito dal celeberrimo ‘Ave Verum’ di Wolfgang Amadeus Mozart. Al termine della celebrazione il ‘Lodate Maria’ del maestro Remo Volpi, originario di Castelnuovo del Zappa, che divenne organista titolare e poi maestro di Cappella del Santuario mariano di Loreto.

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