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IL COMMENTO AL VANGELO

Tutti noi siamo debitori della linfa vitale di altri

Lo insegnano dal loro magistero quotidiano e fedele quei genitori e quegli educatori che non si sottraggono al confronto, a volte faticoso e doloroso, con la libertà dei figli, propri e altrui

Don Paolo Arienti

28 Aprile 2024 - 05:05

Tutti noi siamo debitori della linfa vitale di altri

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

Gv 15,1-8

Tutti noi siamo debitori della linfa vitale di altri che viene come consegnata a noi, dimora presso di noi e ci provoca ad impiegarla, sino alla tremenda possibilità del suo spreco. Davvero la vita è sovrabbondante e davvero la questione centrale che tutti attraversa è la sua fecondità: quanto tratteniamo? Quanto ci sentiamo in diritto di strappare e sottrarre solo per sopravvivere? E quanto invece siamo disposti a cedere, consegnare e donare? Lo insegnano dal loro magistero quotidiano e fedele quei genitori e quegli educatori che non si sottraggono al confronto, a volte faticoso e doloroso, con la libertà dei figli, propri e altrui: si impara dalla vita che, se la si vuole donare, oltre tutte le retoriche e le ideologie, occorre accettarne il flusso libero ed occorre stare molto lontani dal dirupo scosceso della dipendenza.

Nel Vangelo della quinta domenica di Pasqua Gesù vincola molto i suoi discepoli al rapporto con lui, arrivando sino ad impiegare affermazioni pesantissime (“senza di me non potete fare nulla”) e sino a ripetere per ben cinque volte in poche righe il verbo “rimanere”. Chi è un poco pratico di Nuovo Testamento non può non pensare alla continua reiterazione del “con Cristo” di Paolo che nelle sue lettere esprime una vera e propria mistica della relazione con Gesù, sino ad affermare che, a conti fatti, il cristiano è “solo” colui in cui Cristo vive. A prima vista questa insistenza potrebbe sollevare qualche obiezione: non siamo forse nella solita casistica del controllo? Addirittura della dipendenza? Che fine fanno la libertà e l’autodeterminazione del soggetto, vero tempio della nostra epoca? Il Vangelo sembra proprio passatista, troppo legato ad una verticalità che oggi forse non interessa più quasi a nessuno, anzi disturba molti, troppi.

Ma a ben vedere, forse, l’intento di Giovanni è un altro. Perché Gesù rivendica il legame con i suoi discepoli? Che consistenza avrà il “rimanere in lui”? I Vangeli sono testimoni di un evento radicale, quello dell’amore di Dio nella Pasqua del Figlio; rivendicano il valore paradossale e fecondo addirittura della croce; sovvertono i codici religiosi e indicano che Dio è disposto addirittura al sacrificio, al gesto estremo, alla gratuità più totale pur di amare il mondo. Tutto questo è quella linfa che secondo la metafora di Giovanni passa dalla vite (Gesù) ai tralci (i discepoli, coloro che portano frutto): si tratta di una dipendenza non ideologica, esterna, dominatrice, bensì del vincolo più forte che l’amore può generare.

Ora tocca ad altri portare frutto, portare a compimento, a fecondità vera, la linfa che hanno ricevuto dal gesto più radicale e impensabile, quello del dono totale, del sacrificio senza ritorno. Ogni frutto, ogni forma d’amore autentico… non sarà più pensabile fuori da questa radice; anzi ne sarà come un’espressione, un’impronta, una variazione sul tema. Le comunità cristiane che si radunano per l’Eucaristia, fanno memoria di questa radice, dopo aver celebrato, giusto una settimana prima, l’altra, potente metafora pasquale, quella del buon/bel pastore di cui le pecore riconoscono e ascoltano la voce. Così facendo, ridicono a se stesse che quella linfa va assunta e trasformata in nuova vita. Che il vivente cerca vita. Che, al contrario, alcuni innesti possono essere controproducenti se diventano sterili, formali, come quando si crede di appartenere ad una religione o professare dei valori solo a parole, con la sola forza della retorica e non con l’assunzione piena della vita.

Per i cristiani in gioco c’è la continuità dell’amore di Dio che si incarna nelle pieghe concrete di chi porta frutto; ma la stessa partita chiama anche i non credenti e chi per tante ragioni conserva posizioni scettiche e non riconosce con chiarezza il volto di Dio: perché in fin dei conti a tutti è chiesto di prendere posizione rispetto alla fecondità della vita o al terribile controsenso del suo insterilirsi, quando le energie negative della paura o della meschinità bloccano la legge del dono. Consumarsi per portare frutto non è da tutti e non è semplice: si cerca di viverlo in tanti modi e di insegnarlo anche a chi si affaccia alla vita; mentre modelli e pratiche di tutt’altro segno sembrano gridare la convenienza e il successo della scelta opposta.

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