L'ANALISI
21 Aprile 2024 - 05:00
In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».
Gv 10,11-18
Lo si dovrebbe ricordare sempre: i Vangeli non sono una 'biografia autorizzata' né tantomeno una intervista ad un vip o una presa diretta di cronaca. Sono opere letterarie che rispondono ad un preciso disegno ed esprimono una conseguente architettura: sono attestazioni credenti che si muovono a valle dei giorni pasquali di Gesù. Solo dopo aver sperimentato le potenti inversioni della Pasqua, umane, politiche, ma soprattutto religiose, i discepoli si sono messi a ricollegare, ritessere, imbastire e cogliere quei nessi di senso che – capita così forse per tutti – solo alla fine di una esperienza e della stessa vita di un individuo si è autorizzati a riscoprire.
Anche il celebre brano di Gv 10 obbedisce a questa logica: Gesù è il pastore buono (in realtà il testo greco dice bello) non perché sia passato con il solo sorriso sulle labbra tra i villaggi e i campi della Galilea; non perché abbia dispensato consigli di mitezza e di pazienza; ma perché ha mostrato con la sua vita spezzata e carica di senso quale sia la bontà (e la bellezza) di Dio.
Nelle Scritture il Pastore di Israele è sempre Dio; anzi nessuno ne può usurpare il posto, nemmeno quella monarchia che per alcuni decenni, dal X secolo a.C., è vissuta nel paradosso di essere necessaria eppure sospettata di sostituirsi al vero re, quello del cielo, il solo a cui il popolo eletto deve obbedienza, attraverso l’osservanza della Torah.
Per Giovanni Gesù è proprio la concretizzazione di quel ruolo sovrano, espressione di chi sa dove andare (i pascoli della vita) e come andarci (con una bellezza che affascina senza costringere, con una voce udibile e non con l’urlo di chi deporta).
E i cristiani di ogni tempo avrebbero dato retta a quella pagina, sentendola cucita addosso a loro: una storia di comunione intima, un legame profondo fatto di ascolto, conoscenza e ubbidienza, imitazione e originale continuazione. In fondo è a questo che serve, passi l’espressione un poco banale, la celebrazione della domenica: per i cristiani non è una opzione qualsiasi ritrovarsi, incontrare la Parola, spezzare il pane, condividere la preghiera e i volti di presenze fraterne… è semmai lo strumento privilegiato per seguire il pastore, per proseguire sulla sua strada.
Si potrebbe eccepire sull’immagine bucolica che Giovanni sceglie, esposta a fare di Gesù un capo (per quanto buono/bello) e i discepoli delle pecore, se non delle capre; esseri che non pensano, il cui unico ruolo sarebbe quello di chinare il capo, obbedire a gesti religiosi assurdi ed antiquati e… andare avanti così... appunto come pecore, peggio… come pecoroni.
È probabile che la stragrande maggioranza di chi, per un motivo o un altro, ha della Chiesa una pessima considerazione, faccia leva nel proprio immaginario su questa pagina: visto che creduloni? Visto che violenza? Ma come, non c’è stato l’Illuminismo (diceva Kant la fine della minorità intellettuale)? Non siamo tutti moderni, anzi post-moderni, capaci di pensare da soli, destinati solo a noi stessi e al nostro ombelico? Forse sì. Ma varrebbe la pena chiedersi chi o che cosa queste pecore hanno cercato di seguire nella storia ed ancora oggi si sentono chiamate a seguire. Un fannullone borghese? Un radical chic che cura i propri interessi? Un predicatore che si nasconde dietro la cattedra? Le pecore di cui si parla oggi seguono (o dovrebbero farlo) un liberatore di coscienze, non un loro costrittore; un proclamatore di riconciliazione, non un banditore di prepotenze; un creatore di comunione, non un distruttore di umanità. Un bello che affascina per la sua vita, non un brutto che umilia.
Nella storia purtroppo le degenerazioni di questa bellezza riempiono i libri; come è tipico di ogni grandezza che l’uomo riceve e manipola, perché raramente ne è all’altezza. Eppure, ci si prova, nel passato come oggi: ci si prova ad ascoltare quella voce, a vivere immersi in quella comunione che rende ogni alterità carica di speranza, degna di essere amata, voluta da Dio.
È questa quella 'cosa' che i cristiani chiamano vocazione e che provoca tutti a non restare in panchina: non dare per scontato che tutto sia concluso, impacchettato, semplicemente consegnato al passato. Al contrario: credere che di quella voce che trasforma i fallimenti e rilancia le coscienze ci sia ancora estremo bisogno. Che di quella bellezza amante in giro ce ne sia ancora troppo poca e che, allora, il lavoro che aspetta chi desideri giocarsi sia semplicemente… immenso.
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