L'ANALISI
IL COMMENTO AL VANGELO
10 Marzo 2024 - 05:05
In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».
Gv 3,14-21
Il percorso quaresimale di quest’anno ci consegna una seconda, sconcertante chiave di lettura. Dopo esserci confrontati la scorsa domenica con il segno paradossale del tempio che Gesù pretende di distruggere e ricostruire in soli tre giorni, ora è la volta di un altro segno, potente nella sua ambiguità e carico di profonde conseguenze.
Giovanni cita un episodio ben noto ai contemporanei di Gesù e in generale all’Ebraismo di tutti i tempi che vede nell’Esodo l’epopea costitutiva di Israele. Si narra che in uno dei suoi momenti di maggior crisi il popolo ebraico si sia sentito con l’acqua alla gola, o meglio, vittima della sua stessa incredulità, invaso da serpenti velenosi. Ebbene Mosè aveva dichiarato che chi avesse volto lo sguardo ad un serpente innalzato, si sarebbe salvato.
Ora quel gesto di innalzare, o se si vuole di sacrificare, nel senso di rendere uno spazio sacro e luogo di rivelazione, prende le fattezze del crocifisso. Sarà l’unico segno in cui l’amore di Dio potrà coagularsi davvero, senza che siano possibili altre, più forti rivelazioni… perché in fondo che c’è di più radicale e definitivo della morte? Che c’è di più completo e saturo del dare la vita?
Ecco, dunque, la seconda chiave: l’uomo innalzato, il servo Gesù, annoverato nell’infinito popolo dei maledetti, diviene causa di Pasqua per tutti: consente di decifrare l’amore di Dio che non è riservato ai bravi, ai migliori o a quanti sono esecutori precisi e pii di direttive religiose, ma è lì come porta e salvacondotto, come passaggio pasquale appunto, per chi alza lo sguardo: ovvero esce da sé, cerca attorno, desidera riconoscere qualcuno di più grande del male.
Così i morsi dei serpenti velenosi che prendono ancora oggi le sembianze dell’esclusione, del fallimento o della marginalità, sono contrastati da un antidoto che non dipende dai soldi che abbiamo per assicurarcelo… un po’ come è successo alle nazioni più progredite al tempo del covid o come regolarmente accade nel terribile mercato clandestino degli organi interni... Quella medicina è per tutti e non costa nulla; se non la fatica di riconoscere un amore più grande.
Giovanni è così sicuro di mostrare il livello estremo dell’amore che si avventura in una dichiarazione pericolosamente sinistra, poco confacente al clima liberal a cui siamo abituati: chi non crede è condannato. Ma come? Ma se il Vangelo è per tutti? Ma come si permette questo Giovanni? Non è in forza di affermazioni come queste che le religioni hanno varcato il confine del fondamentalismo e in ogni epoca hanno imposto mentalità e chiuso le porte della salvezza?
Ma forse Giovanni intende qualcosa di diverso: se non si crede nemmeno al dono della vita, a che cosa si potrà credere? Quale altro spazio di libertà e gratuità si potrà accogliere nella nostra esistenza? Quello è il gesto massimo, estremo. E se nemmeno quello ci dice qualcosa, allora il Vangelo non fa per noi e non è la parola di pienezza che cerchiamo.
Giovanni ne è così convinto che rafforza la propria argomentazione con due passaggi ulteriori: quella del crocifisso, quella di un amore estremo e apparentemente sconfitto e senza senso, sicuramente senza guadagno e garanzie di successo, - sembra dirci – è la forma più propria e vera della giustizia di Dio. Non una giustizia umana, distributiva, una giustizia “giusta”, ma una giustizia che sa assorbire in altro modo la sete degli uomini e delle donne ingiustamente perseguitati e schiacciati. Ed ancora: quel segno tenebroso della morte in croce (gli evangelisti annoteranno che si fece buio addirittura su tutta la terra!) è in realtà la vera luce; una luce capace di distinguere il vero dal falso, il buono dal cattivo, e non per una imposizione ideologica, politicamente manipolata, ma in forza, appunto, di un amore che non ha più nulla da perdere.
Solo abitando le regioni estreme dell’amore che si fa dono totale e morte, addirittura innalzato perché tutti vedano un corpo crocifisso e nudo, inerme e impotente, sarà possibile arrendersi alla salvezza, ritrovarla, non sentirsi o troppo esclusi o troppo “dentro” le cose di Dio da non averne bisogno.
Giovanni continua a farci dei regali. Ci regala parole-chiave che ridiscutono il sacro, lo spostano in location impensabili. Come è impensabile un amore così. Impensabile e perciò stesso bellissimo, inatteso, autentico.
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