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LA STAGIONE DI PROSA

Silvio Orlando: «Momò è il mio manifesto»

Il regista e attore al teatro Ponchielli in ‘La vita davanti a sè’, monologo con musica tratto dal romanzo di Gary

Mariagrazia Teschi

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mteschi@laprovinciacr.it

13 Novembre 2023 - 10:10

Silvio Orlando: «Momò è il mio manifesto»

Il regista e attore Silvio Orlando stasera al Ponchielli per la stagione di Prosa

CREMONA - Roman Gary l’autore, Momò il protagonista, Silvio Orlando, il regista e l’attore. Tratto da ‘La vita davanti a sé’ pubblicato nel 1975 con lo pseudonimo di Emile Ajar, al centro di un discusso Premio Goncourt, questa sera al Ponchielli per la Stagione di prosa (ore 20,30) l’attore napoletano porta in scena l’infanzia e l’adolescenza di Mohamed detto Momò, nato da una prostituta, affidato con altri bimbi disagiati alle cure di madame Rosa, ebrea, a sua volta ex prostituta in Algeria e Marocco. Siamo nello sgangherato quartiere di Belleville, la casba parigina, in un condominio dove si mescolano povertà, miseria e solidarietà. Momò aspetta giorno dopo giorno, inutilmente, l’arrivo della mamma, il caso lo porta a trovare un surrogato di amore materno e filiale insieme in madame Rosa, anziana e malata, abbruttita nel corpo e nello spirito da un passato segnato dall’Olocausto. Orlando porta in scena un monologo con musica in cui prova a raccontare l’asimmetria dell’amore, a ricomporre le fratture con un passato tragico e doloroso: spinge alla tolleranza, ammorbidisce le mancanze reciproche, ammanta tutto di tenerezza. È accompagnato da Daniele Mutino (fisarmonica), Roberto Napoletano (percussioni), Luca Sbardella (clarinetto/sax), Kaw Sissoko (kora/djembe).

È solo per 90 minuti, come riesce a condurre il pubblico dentro le pagine del libro diventando quel bambino nel suo dramma?
«Il monologo spaventa il pubblico, ne sono consapevole. Ho cercato per questo di ricostruire quel mondo multietnico, precario e sgangherato che vive nel condominio di tanti piani e senza ascensore come fosse il centro dell’universo.
Composto da tante facce di esseri umani, tanti destini, tante storie. La fantasia e la sensibilità del pubblico accese da chi sta in scena, anche se da solo, fa miracoli, più di una tentativo di ricostruzione realistica».

È un’umanità precaria e sofferente ma comunque speranzosa, di grande vitalità.
«Il libro è del 1975, anni difficili per la Francia alle prese con l’immigrazione, in netto anticipo rispetto a quello che accadrà decenni dopo in Europa. Francesi di seria a, serie b e serie c condividevano gli stessi spazi, costretti a trovare il modo di stare assieme. La sfida a cui noi italiani siamo stati sottoposti negli ultimi decenni dev’essere un’opportunità, non una paura isterica dell’altro. La storia dell’umanità è fatta anche di migrazioni, nei casi peggiori nella ricerca della possibilità di sopravvivenza, diversamente per migliorare la propria condizione di vita. Il romanzo mi ha travolto, da qui l’urgenza di portarlo in scena».

All’interno di un macro discorso sociologico, è evidente la volontà di dare un volto a tutte queste persone.
«Li chiamo per nome, li voglio rendere riconoscibili, altrimenti restano una massa indistinta e minacciosa, attirata in un baratro caotico. È compito della letteratura e del teatro dare loro un volto e farli uscire dall’anonimato».

Il monologo che porta in scena questa sera a Cremona ha superato le 200 repliche. Chi lo ha già visto, torna a vederlo.
«Torniamo spesso dove siamo stati, il pubblico ha voglia di sentire di nuovo quel racconto. È probabilmente qualcosa di magico che si crea fra l’attore e chi lo ascolta. La grazia e la potenza di Gary mi hanno davvero sfiorato. Mi piace pensare a questo monologo come il condensato di 40 anni di militanza teatrale, il mio manifesto, la capacità di modellare la materia ascoltando il respiro del pubblico».

Ha lavorato molto sul linguaggio: nel libro è crudo e pesante.
«Fa parte del divertimento dello spettacolo. Il riferimento è naturalmente la traduzione dal francese di Giovanni Bagliolo, che ti proietta subito in quella dimensione. C’è il linguaggio libero, fantasioso divertente di un bambino di dieci anni che può permettersi di dire tutto, non si censura in nessun momento, può dire cose che sulla bocca di un adulto creerebbero imbarazzo ma in bocca al bambino è come se fossero nella bocca di un matto. È un bimbo di strada, uno scugnizzo, non parla come uno studente del college»

Poi c’è il bisogno d’amore, tema universale.
«L’amore materno, il primo amore che abbiamo nella vita non passa attraverso un discorso razionale o intellettuale, l’ho scoperto lavorando anche su di me quando ho letto il libro e vedendo quello che succede ogni sera. Sento che c’è qualcosa di grande che pervade i sentimenti. Credo che il rapporto con la madre sia un rapporto irrisolto per eccellenza. Chi ha avuto troppo amore, chi poco, chi non lo ha avuto. L’ultima parola alla propria madre non è mai stata detta, è anche questa cosa potente che rende lo spettacolo universale e crea una fortissima empatia con il pubblico. Si percepisce, a pelle».

Raccontare la storia di Momò e Madame Rosa nel loro disperato abbraccio contro tutto e tutti è necessario e utile. È anche questa la funzione del suo teatro?
«Non certo indicare vie e soluzioni che ad oggi nessuno è in grado di fornire, ma una volta di più raccontare storie emozionanti, commoventi, divertenti».

Le ultime parole del romanzo di Gary dovrebbero essere uno slogan e una bussola in questi anni dove la compassione rischia di diventare un lusso per pochi: bisogna voler bene.

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