L'ANALISI
01 Novembre 2023 - 15:54
La famosa opera di Vincenzo Campi intitolata ‘La fruttivendola’
CREMONA - Dalla mela di Eva – che in realtà era un fico – a quella di Newton, dalla mela della strega di Biancaneve a quella usata dalla regina Ginevra per avvelenare un cavaliere: è il frutto del peccato, ma anche il simbolo di amore e bellezza per il mondo antico. E non si creda che da sempre mangiare una mela al giorno tolga il medico di torno, per secoli la frutta non ebbe il valore curativo o perlomeno salutare che oggi conferiamo a mele, pere, fichi.
Mele sontuose, caramellate, fatte a pezzettini e imbevute di miele e zucchero, mele cotte e servite come una sorta di marmellata, mele protagoniste sulle tavole imbandite di re e regine, duchi e duchesse. Sono queste alcune delle curiosità contenute nel volume ‘La Cotognata della Duchessa. Dai Conviti principeschi alle nostre tavole’ pubblicato dalla Società Storica Cremonese con il determinante contributo dell’azienda Fieschi e curato da Elisa Chittò e Beatrice Del Bo; la pubblicazione sarà presentata sabato 11 novembre in sala Puerari alle 16, oltre alle autrici interverranno Carlo Vittori dell’azienda Fieschi e Riccardo Rao, docente di Storia dei Paesaggi medievali all’Università di Bergamo.
A motivare il perché del volumetto e della ricerca storica ad esso connessa è la testimonianza di Vittori che racconta l’origine della sua azienda, un’origine che si fa risalire alle tradizioni delle antiche drogherie come quella di «Domenico Curtatelli, attiva dal 1821 in contrada delle Beccherie vecchie, l’attuale via Solferino, che nel 1864 era stata acquistata da Augusto Fieschi, che mantenne fra i vari prodotti dolciari anche la produzione della cotognata cremonese», scrive Vittori. E se questa è la storia di un alto artigianato gastronomico, il volume va alle origini di una specialità che insieme al torrone veniva omaggiata a sovrani e personaggi illustri del Governo di Milano.
Beatrice del Bo, storico medievista, racconta nella prima parte del libro il valore simbolico della frutta e il suo valore simbolico. Anche nelle abitudini alimentari – osserva Del Bo – si rimarcava l’appartenenza sociale. E così frutte come mele, pere, noci, noccioli, uva, more, fragole che si potevano facilmente raccogliere negli orti o anche nei tanti spazi verdi che caratterizzavano le città medievali più di quanto non si crede erano cibi popolari che difficilmente approdavano sulle tavole degli aristocratici se non lavorate, impreziosite da zucchero e spezie, il primo soprattutto prezioso e carissimo. Fichi secchi, datteri, uva passa, confetture, conserve e confetti comparivano sulle tavole di duchi e re come vere ed esclusive prelibatezze e fra queste anche la cotognata.
Ed è Chittò che declina la passione per gli alberi da frutto di Bianca Maria Visconti, duchessa di Cremona che elesse il castello di Santa Croce a sua dimora nei lunghi soggiorni cremonesi, «Bianca Maria aveva voluto alberi da frutto sulla ghirlanda del castello, fra questi piante de pomo, di pesche e di zanzavrini, oltre ai ciliegi e mandorle che le erano stati donati dall’amica Barbara Hohenzollern, marchesa di Mantova, le cui possenti radici dopo la morte della duchessa minacciavano addirittura la stabilità della fortezza stessa», scrive Chittò. Se nel capitolo Dalla mela di Eva alla Cotognata di Bianca Maria, Beatrice del Bo pone le premesse storiche e prospettiche alla storia della cotognata sui banchetti sontuosi di Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza, ne L’importanza dei doni tra principesse e Stati: Bianca Maria Visconti e la famiglia Gonzaga, Chittò rilegge la storia dei riti diplomatici fra Ducato di Milano e Signoria dei Gonzaga attraverso i legami fra Bianca Maria e Barbara, ritratta nella camera degli sposi da Andrea Mantegna, una cronaca minuta fatta di possibili matrimoni, di banchetti, di battute di caccia e dell’immagine di una castello – quello di Santa Croce che non c’è più – che ricoprì il ruolo di vera e propria residenza di corte dei duchi milanesi.
E quanto la cotognata nei secoli che vanno dal XV al XVII fosse diventata una delizia e – diremmo oggi – un prodotto tipico è testimoniato dai documenti come la lettera inviata da Monza il 30 luglio 1461 alla corte dei Gonzaga nella quale «la duchessa, mentre curava i suoi acciacchi grazie ai bagni termali, annunciava a Barbara di Brandeburgo di averle mandato in dono diverse prelibatezze fra cui venticinque lingue che erano molto apprezzate dai principi, e venticinque coppe di bue salato oltre a ventiquattro scatolini di marenata e codognata».
Notizie sulla cotognata e l’uso delle mele cotogne si ritrovano anche nel De honesta voluptate del Platina che era stato precettore dei figli di Barbara Hohenzollern prima di trasferirsi a Roma al seguito del giovane cardinale Francesco Gonzaga, a cui l’autore aveva dedicato un capitolo «alle mele cotogne, consigliandole come medicamento agli ammalati di mal di stomaco e di diarrea per il potere di astringere del succo. L’umanista cremonese dà inoltre alcuni suggerimenti per conservarle consigliando di sbucciarle, di tagliarle a pezzetti e di immergerle in acqua piovana finché abbiano perso tutto il succo. Dopo di che indica di lessarle con miele, e stendere la composta sopra un panno e lasciarla asciugare all’ombra. Infine consiglia di metterla in un vaso con miele tiepido e purificato».
Non ci vuole molto a immaginare che da qui abbia origine – lo stesso Platina suggerisce lo stesso procedimento per altre frutta – la mostarda, una specialità che insieme al torrone sarà spesso dono da parte dei Deputati della Comunità come si legge in una lettera del 1558 in cui il cremonese Paolo Fossa informa di aver inviato all’autorità spagnola «scattole 30 di torrone et albarelli 12 di codogni con zuccaro, il quale aveva disposto che il dono era muy honorato et grande et che ringraziava la nostra città del suo bono animo». Passa il tempo, ma gli usi non mutano.
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